City of Life and Death

23/04/2010

Regia: Lu Chuan
Cast: Hideo Nakaizumi, Liu Ye, Gao Yuanyuan, Fan Wei, Jiang Yiyan, Qin Lan, Yuko Miyamoto, Ryu Kohata, Liu Bin, John Paisley
Produzione: Cina, Hong Kong
Genere: Drammatico
Anno: 2009
Durata: 133
Voto: 7.5


Il massacro di Nanchino è una delle pagine più nere del XX secolo, che pure può vantare un cospicuo catalogo di atrocità. Quando nel dicembre 1937, pochi mesi dopo la caduta di Shanghai, l’Armata Imperiale di Hirohito attaccò Nanchino, allora capitale della Cina, si abbandonò ad una serie di omicidi di massa, torture, stupri e saccheggi che hanno pochi eguali. Dagli stupri seriali (circa 80.000) alle esecuzioni a colpi di mitragliatrice dei prigionieri di guerra sulle rive del fiume Yangtze, fino al reclutamento forzato delle donne come “comfort women” per i soldati nipponici e all’indiscriminato olocausto di civili, ci trova di fronte ad una sistematica enumerazione di orrori che lascia annichiliti. Gli storici cinesi hanno fatto una stima complessiva di 300.000 caduti, mentre per i giapponesi la cifra oscilla dai 100.000 ai 30.000. Quegli avvenimenti sono tuttora argomento scottante nei rapporti sino-giapponesi, dato che il Giappone non ha mai sporto scuse ufficiali alla Cina, tranne un generico rincrescimento per le sofferenze causate in Asia, espresso nel 1995 dall’allora Primo Ministro Tomiichi Murayama e dall’Imperatore Akihito. Una forte corrente revisionista tende a rimuovere l’avvenimento, anche sugli stessi libri di testo, e ancora nel 2007 è stato possibile realizzare un film totalmente negazionista come “The Truth about Nanjing”.
L’episodio ha naturalmente ispirato numerosi film, ora di stampo documentaristico (l’interessante “Nanking”, di Bill Guttentag e Dan Sturman), ora polpettoni ad elevato tasso retorico (l’insopportabile “The Children of Huang Shi”, con Chow Yun Fat), ed ora questo “City of Life and Death”, terza opera del regista Lu Chuan. E bisogna ammettere che il film impressiona per l’assoluta mancanza di quelle note caratteristiche che si è soliti aspettarsi in un film cinese. Lu Chuan accantona sia l’epica di stampo nazionalista che il melodramma per affrontare la strada più impervia, quella di raggelare con uno sguardo clinico e freddamente oggettivo l’incandescenza del materiale di partenza. Molto significativamente, decide di non focalizzare l’attenzione su uno o più protagonisti, ma di dar vita a un film corale dove i personaggi sono presenze tutto sommato ininfluenti, spinte violentemente ai margini da una visione centripeta e in continuo movimento, così come liminari e quasi confinate all’estrema periferia del campo visivo sono le numerose e fulminee scene di atrocità. Inoltre sceglie di smorzare ulteriormente i toni utilizzando un contrastatissimo bianco e nero (stupefacente la fotografia di Cao Yu), che gli permette d’imbastire scene d’allucinato nitore.
Dopo la caduta della città, che occupa la parte iniziale (e l’ostentata astrazione delle scenografie di Hao Yi fanno pensare a “Full Metal Jacket”), il film ruota attorno alla “Safety Zone”, uno spazio per i rifugiati organizzato da John Rabe, un commerciante iscritto al partito nazista che, in virtù del Patto Anticomintern firmato da Germania e Giappone, aveva la possibilità di essere ascoltato dalle truppe di occupazione. Qui s’incrociano i destini di alcuni personaggi: Kadokawa, un giovane soldato giapponese che si innamorerà della prostituta Yuriko e che alla fine sceglierà il suicidio; Ida, un ufficiale di raro cinismo e brutalità; Lu, un soldato cinese che finirà mitragliato sulle rive dello Yangtze; Tang, assistente ed interprete di John Rabe, il quale rifiuterà di seguire l’uomo in Germania per restare con i suoi compatrioti; Jiang Shuyun, un’insegnante cinese che aiuterà Rabe ad organizzare la “Safety Zone”. Ma il vero protagonista è quel particolare momento storico, ricostruito con estremo rigore e senza cedere ad una facile spettacolarizzazione dell’orrore, ma anzi con umanissima pietas, sentimento che è ben riassunto nel gesto di Kadokawa prima di togliersi la vita: costruire una tomba per una prostituta morta che, nella sua meravigliosa ingenuità, egli considera sua moglie.
Molti sono i momenti toccanti che, miracolosamente, evitano un corrivo sentimentalismo, dalla fucilazione di Tang al momento in cui le donne cinesi si offrono volontarie come “comfort women” per evitare che la “Safety Zone” venga distrutta, ma il momento che più resta nella memoria è l’agghiacciante e bellissima sequenza in cui i soldati giapponesi eseguono una bizzarra danza rituale per festeggiare la conquista della città, un istante carico di orgoglio nazionalista ed insieme di rabbia e follia che certo non sarebbe dispiaciuto a Mishima Yukio.
“City of Life and Death” si è aggiudicato numerosi riconoscimenti in tutto il mondo, dal Festival di San Sebastian al Golden Horse Film Festival, e ha fatto recentemente incetta di premi ai prestigiosi Asian Film Awards. Il film, pur avendo subito qualche taglio in sede di censura, ha ricevuto un’ottima accoglienza in Cina, anche se, per la cronaca, il regista pare abbia ricevuto minacce di morte per aver osato inserire tra i protagonisti un soldato giapponese. Un segno, nel bene e nel male, di quanto la ferita di Nanchino sia ancora ben lontana dal rimarginarsi.

Nicola Picchi