
Quando
si parla di un film di Ingmar Bergman si ha la
certezza di parlare di un capolavoro e dunque,
qualsiasi analisi, anche la più fredda,
potrebbe apparire viziata da una sorta di debito
che si sente di dover pagare con un uomo che ha
fatto la storia del cinema. Da tutti i film di
Bergman è , infatti, possibile trarre,
imparare, sentire qualcosa, e ogni pellicola è
un capolavoro difficile da contestare. “Fanny
e Alexander” è senza ombra di dubbio
uno dei film più celebri del regista svedese
che vede la luce nei primi anni 80’, il
1982 per l’esattezza, quando Bergman ha
già alle spalle oltre ad una vasta produzione
anche una carriera a dir poco invidiabile. Si
tratta di una pellicola particolare, sia per le
modalità che ne segnarono la realizzazione
sia per le “intenzioni” che spinsero
Bergman a lanciarsi in questa impresa che fin
dall’inizio apparve colossale. Nata come
una serie televisiva, che doveva articolarsi in
6 puntate, la pellicola fu ben presto riconvertita
per il cinema subendo una serie di tagli che attirarono
sul regista non poche critiche. Sin dall’inizio
“Fanny e Alexander” si pone, rispetto
alle opere precedenti, come diversa non solo perché
nei disegni del regista questa avrebbe dovuto
essere la pellicola con la quale chiudere la propria
carriera, ma anche perché si tratta di
un lavoro fortemente autobiografico, nel quale
Bergman ripercorre la propria, tumultuosa infanzia
trascorsa ad Uppsala. E il taglio autobiografico
del film emerge subito sin dalle prime battute,
quando la scena si apre sulle cinque stanze che
costituiscono la casa degli Ekdhal e che rimandano
perfettamente alla casa paterna del regista. Tutti
i personaggi, i luoghi, i suoni, i colori sono
pertanto un richiamo a quei posti dove Bergman
correva a rifugiarsi per sfuggire all’eccessiva
rigidità del padre-padrone-pastore, il
terribile Vescovo Vergérus del film. Siamo
quindi dinnanzi ad una sorta di atto di “riconoscenza”,
soprattutto per quella nonna che molto spesso
incarnò la madre che Ingmar non ebbe mai.
Così proprio la necessità di sfuggire
alla cattiveria paterna costituisce il nucleo
della pellicola, il bisogno di affrancarsi dall’ossessione,
dal fantasma del padre che a lungo torturò,
ossessionò Bergman, non lasciandolo mai
in pace: “Non ti libererai mai di me”
questo grida, infatti, il fantasma di Vergérus
alla fine del film. Dunque la pellicola pur presentandosi
come una sorta di commedia si tinge in realtà
di risvolti drammatici, che portano l’arte
di Bergman ad una difficile, ma armonica conciliazione
degli opposti della vita. La vita, infatti, diventa
uno spettacolo pieno di colpi di scena, dove tutto,
in qualsiasi momento, può sempre accadere.
Il senso conduttore è dunque la possibilità
di vivere tutti gli aspetti dell’esistenza,
compresa la morte e le passioni, con assoluta
naturalezza anche di fronte all’intervento
repressivo di quello che Bergman considera il
troppo rigido puritanesimo della cultura nordica.
Arte e vita quindi si fondono in un teatro, quello
dell’esistenza, nel quale le persone diventano
personaggi, maschere dietro le quali poco o nulla
si cela e nel quale Bergman sembra finalmente
superare i suoi dilemmi sulla morte e sulla trascendenza.
Eccezionale la fotografia del sempre bravo Sven
Nykvist che riesce a rendere in modo esemplare
il contrasto fisico tra il colore del mondo teatrale,
la magia dell’ambiente ebraico e la freddezza
ascetica del rigore religioso. “Fanny e
Alexander” valse a Bergman 4 oscar, sulle
sei candidature ricevute, quello per la fotografia,
per la scenografia, per i costumi e per il miglior
film straniero, ma non venne premiato per la regia
e per la sceneggiatura, negando così a
Bergman il piacere, forse l’ultimo, di ricevere
una statuetta personale per un opera che di certo
avrebbe meritato maggior consensi.