Il racconto del mese: Tutto quel che resta

01/07/2014

Eppure non avevo ancora voglia di morire. Fermai la vecchia Volvo Polar azzurra che avevamo rimediato al parcheggio della Bennet di Pieve Fissiraga praticamente ad un metro dal mare. Eravamo sul molo principale di Porto Venere e non ci eravamo arrivati per caso. Un tempo non si poteva parcheggiare lì ma adesso non faceva molta differenza. Stefano chiese “Che ore sono, il mio orologio si è fermato.” Anche il mio, da un pezzo. Guardai quello del cruscotto. “Le sei e venti. Ma non so se è giusto.” Dissi e poi spensi il quadro dei comandi girando la chiave. Non avevo voglia di scendere, e forse non avevo voglia di ricordare. “Che si fa?” Chiese Daria, ma né Stefano, né Alberto e nemmeno Claudia le risposero. Il profumo della salsedine al sottile vento della Liguria penetrava nei finestrini e nelle bocchette dell’areazione. Amavo quell’odore, eppure mi rese tristissimo. Presi con due dita la grande leva cromata ed aprii la portiera. Non c’erano mai stati molti turisti, a Porto Venere, eppure era uno dei posti più belli del mondo. O forse lo era per me, avendoci passato tutta l’infanzia, non saprei. Mi accesi una sigaretta. Ero riuscito a trovare di straforo un pacchetto nuovo di zecca dietro il registratore di cassa di un bar. Erano Merit al mentolo. Una vera schifezza ma sempre meglio di niente. Non è che si poteva fare troppo i difficili. Non c’erano più selezioni di tabacco o degustazioni di Cognac con cioccolato fondente nei locali in cui ti era consentito di fumare. Ecco, l’unica cosa positiva era che adesso potevi fumare ovunque, senza che nessuno intenzionato a morire sano ti rimproverasse o chiamasse un poliziotto per farti dare duecento euro di multa. Scesero anche gli altri e si stiracchiarono. Tutti tranne Claudia, che si muoveva lenta e con le braccia strette attorno al ventre. La notai con la coda dell’occhio mentre fingevo di guardare il mare. Non che fossero due bellezze estreme ma, nonostante tutto, Claudia restava ancora un po’ più carina di Daria. E comunque nemmeno noi uomini eravamo David Ghandi, quindi c’era poco da fare i difficili. Mi piacevano entrambe, ad essere onesti. Mi piaceva Claudia per come stava prendendo la cosa. Ma aveva scelta? Avevamo scelta? Sì, certo, potevamo spaccarle la testa con una pietra e sperare bene dopo averla bruciata. Eppure, non era venuto in mente a nessuno. O meglio, era venuto in mente a tutti, Claudia compresa, ma non l’avevamo fatto. In altri tempi non ci avrei scommesso un centesimo su tanta filantropia. Però non era neanche filantropia. Era che tanto non avevamo futuro. “Come stai?” Le chiesi. Claudia mi sorrise. Era carina, quando sorrideva era bella, davvero bella. Con i capelli ricci biondi che le svolazzavano davanti al viso mi disse “Bene.” Io abbassai gli occhi. Era l’ultima cosa da fare, lo so, ma fu un gesto spontaneo. Le carezzai vigorosamente un braccio, glielo strinsi all’altezza della spalle. Non sono mai stato molto bravo con le parole giuste al momento giusto. Feci un cenno affermativo con il capo e la superai. Mi imbarazzava starle davanti. Stefano voleva provare a salire su una piccola imbarcazione ormeggiata al molo. “Occhio che cadi in acqua!” Lo rimproverò Alberto, con le mani in tasca e un berretto troppo vecchio, con le iniziali di New York. Daria mi raggiunse. “Mi fai fare un tiro?” Mi venne spontaneo esclamare una mezza risata. Daria portava un paio di jeans stretti e una maglietta senza maniche con una foto di Gwen Stefani ai tempi dei No Doubt. La scritta sotto la foto era, prevedibilmente, Don’t speak. La trovai anacronistica, senza dubbio, ma era anacronistico anche il cd di Loredana Bertè che trovammo nel lettore della Volvo. “Tu proprio te ne freghi, vero?” Le domandai. Mi guardò dritto in faccia, sicura di sé e radiosa, con i suoi grandi, espressivi occhi verdi. “Sì.” Mi rivelò quello che già sapevo. E la delusi. Non me lo diede a vedere ma compresi subito di averla delusa. Dal pacchetto di Merit ne estrassi parzialmente una e gliela porsi. Si scostò i capelli castani dalla fronte quando la accesi con un bic blu. Mi guardò ancora, come per dirmi che capiva benissimo e non c’erano problemi. Ma io sapevo di averla delusa. Non si pensava ci fossero coppie fra noi, o che dovessero essercene in un ipotetico futuro, ma Daria era un po’ fra Stefano e Alberto, mentre Claudia sarebbe dovuta essere mia, e invece non lo sarebbe stata mai. Ci incamminammo in quella che un tempo veniva chiamata “la calata”, ed era una strada che costeggiava la prima fila di case del paese e, sull’altro lato, si affacciava sul mare addentandolo con scogli ancora aguzzi. La prima cosa che notai fu l’assenza di gatti. Porto Venere era sempre stata famosa per i suoi gatti, presenza immancabile in un paese di pescatori. Stefano e Alberto scherzavano con Daria mentre io li precedevo. Accanto avevo Claudia. Lei era l’unica a portare un maglione. Era bianco a strisce gialle. Le donava, dopotutto. Mi voleva dare la mano ma sapeva che difficilmente gliel’avrei presa, anche se non c’era alcun rischio nel farlo. All’epoca dei grandi camion a rimorchio pieni di cadaveri bastava un respiro. L’ A6 aveva decimato il genere umano, riducendolo sull’orlo dell’estinzione, e sembrava potesse finalmente farcela, dopo pestilenze, guerre chimiche e rivolte organizzate ad hoc nei paesi a rischio. I pochi che erano sopravvissuti all’ A6 avevano anche pensato di farcela. Invece, tre anni dopo, quando in alcune parti del mondo i paesi si stavano addirittura riorganizzando con governi di militari e bio-chimici, era arrivato un altro ceppo. E questo sarebbe stato l’ultimo, ma proprio l’ultimo. Mi voltai e vidi Daria che era saltata sulle spalle di Alberto dopo aver dato una spinta a Stefano. La ammiravo. Potevamo essere tutti infetti ma lei giocava ancora alla regina di cuori fra i due fanti. Claudia no, Claudia era finita. Intendo a breve, tutti noi eravamo finiti. Eppure non avevo ancora voglia di morire. L’AA7 non si trasmetteva certo come tutte le altre influenze, quindi non era facile da prendere come l’A6. Forse l’umanità sarebbe addirittura sopravvissuta all’ AA7 se non fosse stata già estinta per quattro quinti dall’ A6. Due influenze, pensai. Non era bastata la bomba atomica, non erano bastati i proiettili all’uranio impoverito, non ci era riuscito nemmeno l’ AIDS. E’ proprio vero che il nemico peggiore è quello che sottovaluti. Ai tempi dei camion a rimorchio pieni di cadaveri in molti avevano pensato ad una qualche forma di terrorismo su larga scala. Invece no. L’influenza colpì tutti i paesi e, in meno di due mesi, eravamo in quattro miliardi. C’erano droni spia che volavano ovunque, ci furono anche un paio di dichiarazioni di guerra ai paesi arabi e alla Corea del Nord ma sei mesi dopo dagli Stati Uniti, come dalla Corea del nord, d’altro canto, non arrivarono più notizie. E anche noi non ne mandammo più. Ufficialmente, l’Italia smise di esistere, politicamente parlando, nell’ultima settimana di marzo del 2015. Le trasmissioni radio e quelle televisive smisero poco dopo. Si diceva che alcuni fossero immuni all’ A6 e anche all’ AA7, ma erano pochissimi casi, uno su milioni. E forse io ci credevo proprio, a questa cosa. Forse ci credevo troppo, ma non avevo mai avuto sintomi. Ma se ci avessi creduto davvero troppo non avrei preso tante precauzioni. Il fatto è che proprio non mi andava di morire, nemmeno se fossi stato l’ultimo uomo sulla terra. Alberto mi lesse nel pensiero.  Da dietro, con Daria ancora sulle spalle, disse: “E se fossimo gli ultimi rimasti?” Poi si rese conto di essere stato indelicato, perché uno di noi avrebbe lasciato il gruppo molto presto, ma Claudia non ci fece caso, o finse di non farci caso, e gridò: “E chi se ne frega?” Aveva ragione. Che importanza aveva se tutto il mondo che conoscevamo era ormai un cimitero. Se anche fossimo stati immuni, tutti noi altri, ipotesi a dir nulla assurda, dovevamo superare l’inverno senza riscaldamento, dovevamo trovare cibo, dovevamo sopravvivere, eventualmente, all’incontro con altri superstiti, benchè in tre mesi non avessimo mai visto anima viva a parte gli insetti e gli uccelli. Forse eravamo davvero gli ultimi. Indicai a Claudia i resti semi-crollati di un negozio. “Lì vendevano souvenir e collane di corallo.” Le dissi. “Mia madre adorava le collane di corallo, e ne prese più di una in questo negozio. Qui mi conoscevano tutti. Non sono nato qui ma tutti sapevano chi ero.” Claudia si avvicinò a ciò che restava del negozio. Vide che c’erano ancora oggetti, appesi alla parete sulla quale si arrampicava una scala in pietra e che portava in un posto buio e dimenticato. C’erano delle collanine ricavate con piccole conchigliette, ventagli dalla carta ormai ridotta a fuliggine e quadretti impolverati raffiguranti scene di pesca o minuscoli paesaggi al tramonto. Io raccolsi un braccialetto di sassolini levigati dal mare. Me lo misi al polso. “Era la sua specialità.” Dissi. “Cosa?” Domandò Stefano che si era avvicinato, mentre Daria e Alberto si rincorrevano pericolosamente sugli scogli oltre la strada. “Questi bracciali. – risposi – Lui raccoglieva piccoli sassolini e li perforava con un trapano. Questi li regalava ai clienti, non li vendeva perchè, vedi? Non valgono niente. Si chiamava Bruno, aveva questo negozio da sempre.” Claudia prese una collanina di conchiglie e, giuro, fui sul punto di baciarla per l’espressione di spontanea, assurda felicità che le lessi in volto. Sono convinto che non mi avrebbe respinto. Anzi, sono convito che si aspettasse qualcosa del genere, perché si voltò verso di me e sorrise. “Come sto?” Le dissi che era splendida con la luce dell’ultimo sole che le filtrava fra i capelli scossi dal vento e non mentii. Non le diedi un bacio, questo no, ma l’idea di farlo mi venne eccome. Stefano si accorse che c’era qualcosa di strano e si fece da parte. Io e lei restammo a guardarci per un minuto abbondante. Non ci fu bisogno di aggiungere nulla. Anche perché, come ho già detto, non sono mai stato bravo con le frasi ad effetto. Invece le indicai un punto vicino a quello che sembrava essere una specie di patio sul mare, ed in effetti lo era stato. “Ero un ragazzino quando vidi due bambini piccolissimi, un maschietto e una femminuccia, almeno credo perché uno aveva il costumino azzurro e l’altra rosa, che si corsero incontro con le loro gambe paffutelle e si abbracciarono. Restarono abbracciati per un sacco di tempo, dovevano volersi un bene dell’anima. Ricordo questa scena come se fosse successa ieri, con tutti i profumi delle focacce, del mare, del pesce e tutto il resto. Più indietro, invece, c’era un ristorante. Trovai un gattino piccolo, una volta, e doveva essere un orfanello. Si arrangiava con quello che Iseo, il proprietario del ristorante, gli gettava dai piatti che riportava in cucina. Io lo presi e lo portai nel mio albergo, quella costruzione sventrata che vedi alla fine della strada. Gli diedi del latte e lui, dopo essersi sfamato, si mise a dormire proprio qui, sul mio cuore, mentre stavo sdraiato sul letto a godermi la brezza che entrava dalla finestra. Mia madre ci lasciò soli e noi dormimmo per chissà quanto tempo. Adesso anche il gattino aveva una mamma. Lo portai a Lodi e visse con me per quindici, lunghi anni. Era bianco con delle macchie grigie che sembravano fumo. Un gattino dolcissimo, anche da adulto.” Ma Claudia non mi stava ascoltando, mi stava guardando. Sapevo che stava pensando a qualcosa e presto avrei scoperto a cosa. Camminammo ancora fino alla grande scala in marmo che portava alla piazza del paese. Quando salimmo gli ultimi gradini Daria disse, con la sua incantevole espressione di meraviglia: “Ma è bellissimo!” All’estremità opposta dell’ampia piazza, sulla vetta di uno sperone roccioso, sorgeva la chiesa di San Pietro, ed era rimasta lì, intatta, con il sole che le infiammava la croce ancora dritta sul tetto, mentre il cumulo di rovine che stava alle nostre spalle era il “carugio”, la piccolissima strada che passava tra la prima fila di case e la seconda. “Vi faccio vedere un posto ancora più bello.” Dissi. Traversai la piazza per il largo e raggiunsi una parete di sassi nella quale si apriva una piccola porta di ferro battuto. “Cazzo se è bello ‘sto posto…” Ed era il massimo del lirismo che si poteva chiedere ad Alberto, che, pur nella sua strana visione del bello, aveva riconosciuto quando splendida fosse la Grotta Byron, un piccolo golfo di scaglie di pietra nera che si affacciava su pareti scoscese di roccia, quasi fossero la frontiera ultima del mare. E il sole batteva su quelle rocce rosse e riluceva sulla pietra nera della grotta e su di noi, che eravamo probabilmente gli ultimi a vederla. Ci sedemmo, l’acqua gorgogliava molto più in basso e riuscivamo appena a vederne la spuma. Sentivamo ancora il profumo della salsedine, al quale io aggiunsi tutti i profumi che conoscevo di Portovenere, ed erano infiniti. Il crepuscolo riluceva sulle quiete onde dell’immensa distesa che avevamo davanti e sui nostri volti dorati. Non saremmo mai più stati così belli. E lo sapevamo tutti, e sapevamo che un momento così non l’avremmo mai più vissuto. Un gabbiano planò in nostra direzione, come volesse salutare il quadro splendido e nostalgico di tutto quel che era rimasto. “Fate l’amore con me.” Io chiusi gli occhi e una stretta al cuore me lo fece battere più forte. Tutti, tranne me, si voltarono verso Claudia. “Moriremo. Io ho l’AA7, e se facciamo l’amore sapremo di essere tutti infetti. Moriamo adesso, prima che tramonti il sole, intanto che abbiamo la pancia ancora piena e il vento è tiepido. Poi ci lanceremo su quegli scogli laggiù e sarà come non essere mai esistiti.” Riuscii, con uno sforzo enorme, a guardarla. Rimasi abbagliato dalla sua fatale, inattesa bellezza. Adesso era come una divinità marina giunta a raccogliere le ultime speranze di chi era rimasto. Io non ero fatto per quella bellezza.
Daria fu la prima ad avvicinarsi, e credo che il primo sospiro glielo diede Alberto, che non mi salutò nemmeno quando mi alzai per andarmene. Era rapito dalla mia ragazza, dalla ragazza che non sarebbe mai stata mia come invece era di tutti loro, adesso. Non eravamo più “noi” da tempo, pensai. Eppure, fu me che Claudia guardò da lontano, da lontanissimo, da ere geologiche di lontananza, quando mi voltai, prima che uscissi dal cancelletto di ferro battuto, mentre una schiena di uomo si muoveva sopra di lei. Improvvisamente mi sentii stanchissimo. Nondimeno, mi arrampicai fino alla chiesa e poi, da lì, su per una ripidissima scala che conduceva alla terrazza sulla scogliera. La raggiunsi con il cuore martellante e il fiato corto. Mi gettai sul parapetto con la bocca spalancata per respirare. Adesso ero completamente solo e forse sì, sarei stato l’ultimo. Guardai il panorama infinito che si stendeva davanti ai miei occhi. La fronte imperlata di sudore, le gambe che facevano male, ma avevo ancora ben chiaro il ricordo di quella strada lucente nel mare disegnata dal sole alla sua fine, quando diedi il primo bacio alla mia prima ragazza, proprio su quella terrazzina. Fu un bacio intenso ma pur sempre il primo. Fu un bacio inesperto. Mi sentivo ancora più stanco e triste quando mi tornò alla mente l’odore della crema solare che ci eravamo spalmati sulla schiena, prima io a lei e poi lei a me, e quanta forza, quanto desiderio in quel contatto di due giovani che mai avrebbero immaginato di baciarsi così, all’improvviso, sul tetto di una chiesa mentre il più grande mistero si espandeva placido e dorato sotto di loro. Ma eravamo comunque dei ragazzini. Non eravamo degni di quel tramonto come non lo ero io adesso.

Carlo Baroni