
Inventare se stesso, sette anni dopo la pubblicazione del suo ultimo libro. Con quale esito? Certo, volutamente disordinato e irregolare, ma nondimeno con tematiche consolidate nella narrazione, quali: la famiglia; il tempo (con la freccia che va in entrambe le direzioni, come passato remoto e futuro prossimo); l’originalità antica nel rapporto tra generazioni; la mobilità e la separazione geografica; l'allontanamento e il ritorno. Così il nuovo romanzo "L'Inventore di se stesso" di Enrico Palandri, per le Edizioni Bompiani 2017, di cui hanno discusso assieme all'Autore Marino Sinibaldi e Chiara Valerio alla Casa delle Letterature di Roma. Certo, va detto che il rapporto continuo con la biografia, solo in parte generazionale, ne ha prodotto una compressione sulla fluidità narrativa, creando qualche difficoltà espressiva. Rimane però limpido il suo rapporto con la realtà, di cui le metafore sono i romanzi di reazione ai suoi fallimenti. Secondo Sinibaldi, quello di Palandri è un tentativo di scrittura di trasformare la realtà, in base a traiettorie incoerenti perseguite fino in fondo anche con le ultime opere.
La domanda di fondo è: che cosa si fa con quello che ci arriva tramandato da lontano, in generale, e nella nostra storia familiare, in particolare? Tutto inizia al momento della nascita di un bambino. Nel romanzo le famiglie (come nella realtà, del resto) sono di fatto insopportabili, e qui lo ricorda la pretesa di un nonno di dare al neonato il suo nome, Gregorio, legato a una storia enigmatica, imponendolo pregiudizialmente alla scelta libera di suo figlio Giorgio (il protagonista narratore) e di Laura, sua moglie. Sono bellissime e assai poco didascaliche (al contrario di molti passaggi che esitano tra il trattato di filosofia e le note a margine) le pagine relative alla storia d'amore tra Gregorio e Sylvia (la madre di Giorgio), che si fanno notare per l’estrema delicatezza del racconto di quello che accadde nell'Inghilterra del 1953. Qui, si esercita efficacemente il controllo dell’Autore sull’analisi di ciò che c’è di universale nei sentimenti umani, applicandolo a una situazione reale. Gregorio, un brillante ricercatore italiano di lettere classiche, conquista sua moglie Silvia studiando a priori come un forzato le opere letterarie del primo marito, ritenuto un grande autore inglese, per demolirle e dimostrarne la nefandezza, ottenendo il risultato rivoluzionario che lo stroncatore del marito fa innamorare di sé la moglie dello stroncato!
A latere, ma non troppo, c’è un certo compiacimento nel mettere in ridicolo le figure dei baroni inglesi, molto simili agli accademici nostrani nei loro congeniti difetti caratteriali. Gregorio, bontà sua, sfugge a questa attrazione fatale, risolvendo a modo suo la battaglia che si combatte in ognuno di noi tra la realtà e la consapevolezza della storia, tra la nostra infanzia e maturità. Giorgio all’inizio, rifugiandosi in campagna ad amministrare le proprietà del suocero, si ritrae dal mandato paterno di tramandare e mantenere alto il blasone di famiglia, vero o immaginario che sia. Con la nascita del figlio, però, tutto è rimesso in discussione. E qui, Palandri toglie l’Io e lascia parlare la Storia grande, accanto a quella più personale di una famiglia antica e ingombrante che abbraccia la tradizione bizantina e ortodossa veneziana. Il vero nucleo della questio narrativa è la figura di Giorgio, che scopre la storia familiare e a un tempo la inventa assieme a suo padre secondo una complicità straordinaria prima inesistente, non concedendo nessuna chiave al lettore per tracciare il discrimine tra il vero e il falso. In questo, viene utilizzata la figura parallela di supporto dell’avo Licudis, ambasciatore (sdentato?) di Pietro il Grande, Zar di tutte le Russie.
In fondo, il ragionamento perseguito è: come lavorare sulle nostre radici per liberarsi da un passato paralizzante e reinventare noi stessi, salvandoci dalla sua prigionia attraverso la crescita di una radice del tutto nuova che innovi sul passato, in proiezione del futuro? Poi, c'è da stabilire se sia possibile che le biforcazioni successive, inevitabilmente condizionate da quelle precedenti, possano essere di rottura totale rispetto al passato stesso. Possibile, certo, ma solo perché non esiste un criterio univoco per giudicare i fatti lontani che rimangono tali e immutabili, ma le loro verità e interpretazioni si modificano (e, talvolta, si ribaltano) incessantemente nel tempo! Perché è sempre vero che la Storia (con la maiuscola) di tutti trascende quella familiare di ognuno e, quindi, è sempre più giusto ragionare pregiudizialmente sui destini collettivi, da dove proveniamo e all'interno dei quali esisteremo nel futuro.
Se vogliamo, c’è molto di politico nel romanzo. Il gioco con il lettore, però, è chiarito fin dall'inizio, come la realtà che passa sempre per le cose lette. Nella storia narrata solo la sorella è umana, nella sua praticità anche brutale ma estremamente efficace. Un racconto, in fondo, sulla distrazione tra presente e futuro che rende molto comodo rifugiarsi nel passato, per sfuggire alla pervasività del quotidiano. Non cambia granché rispetto alla nostra inadeguatezza, ma serve a non distrarci. Il precettore di Pietro il Grande, Gregorius Licudis, nella sua ansia epigrammatica non perde la sua ironia, insinuando nel lettore qualcosa che verità non è. L'unica faccenda che genera realtà è il desiderio del coito che procrea altre persone. Il nome può essere inventato per disegnare la storia che desideriamo avere. Nella casa del padre Gregorio, infatti, si fa comparire la Yourcenar tra le foto di famiglia, trattandola come una vera e propria parente. L'Autore mischia i quadri veri con quelli finti, come fiori naturali che imitano quelli di carta. Giorgio Licudis passa il tempo a rimpiangere: ha tutte le finzioni della famiglia senza avere l'amore della moglie. Morale: bisogna accettare l'inadeguatezza.
Per Palandri la parola ha il significato etimologico del trovare, trovarsi. Giorgio racconta qualcosa di inventato, mentre Silvia ha una "y" e poi solo una "i". L'innamoramento sotto il pitosforo è bellissimo ma anche terribile, dato che il cuore di questa vicenda si regge su un fatto dolorosissimo: accettare la vita di un altro significa prendere tutto di lui. E ci sono delle cose che vanno protette: non puoi raccontare che tuo suocero picchiava sua figlia, ovvero tua moglie, perché da figlio ti proietti alle spalle un'idea dell'amore. Giorgio costruisce dei luoghi e forse la storia stessa che tiene in piedi il rapporto con Laura. Nella nostra attenzione agli altri c'è qualcosa di meno privato e più sociale, dato che l'amore non ci nasce psicologicamente all'interno, ma è la risultante di un tessuto reale, di ciò che c'è nel mondo quando capiamo che quello che ci ha messo insieme era qualcosa più grande di noi. Appoggiarsi su di un repertorio documentale serve ad assicurare la coerenza interna a un romanzo di 150 pagine.
Cos'è questa ricostruzione della Russia e di Venezia? Qualcosa di simile a quello da noi vissuto passando dallo Stato-nazione all'Europa. Giorgio non trova un'identità ma delle persone (si esiste solo nelle relazioni): ti leghi alle cose che scopri nell'altro. Nel dire e nel leggere di Gregorio serve a difendersi da un grande dolore, perché come dice Freud: "L'inconscio è il passato che mi ha piegato la schiena". La questione politica, infine: in quale modo portiamo i conflitti continui tra popoli e classi sociali? Giorgio fa pensare che c'è ma, poi, si scopre in definitiva che non c'è.