Intervista con Ionesco

03/06/2018

 

Nella primavera del 1985, Roma accoglie fra le sue antiche e immortali mura, Eugène Ionesco (1909 – 1994), il grande drammaturgo francese di origine rumena. L'autore di opere di cruciale importanza per il teatro contemporaneo come La lezione (“La Leçon”, 1951) e Il rinoceronte (“Rhinocéros”, 1959) in quella occasione rilascia una intervista a dir poco determinante al francesista Giuseppe Grasso, il quale ebbe la grande fortuna di potersi confrontare con lo scrittore, all’epoca settantaseienne.

Ionesco alloggiava in quello che oggi si chiama St. Regis Grand Hotel, un albergo tra i più belli, e non volgarmente lussuosi, della Capitale. L'intervista esce nel giugno dello stesso anno sul quotidiano romano Il Popolo in una versione però assai ridotta. Oggi, anche grazie alla sensibilità culturale dell'Editore abruzzese Solfanelli, quella conversazione torna finalmente a vedere la luce nella sua completezza, offrendo ai francesisti – incluso chi scrive – e non solo, un documento di estrema importanza, che andrebbe valorizzato nelle ricerche di settore, giacché offre un contributo che porta al dato, ovvero, quelli che sono “sangue e corpo” di una efficace e non autoreferenziale ricerca accademica.

Una conversazione con un grande autore

Il testo di cui stiamo parlando irrompe come una nuvola dalla quale nascono parole in forma quasi di “temporale”. Un ragionamento, quello che Grasso stimola a Ionesco, pieno di sollecitazioni per il lettore, composto di riferimenti, nomi e luoghi di una geografia ideale, disegnando metaforicamente una mappatura del composito orizzonte culturale di questo polemico, quanto talentuoso autore. Del resto, Ionesco non è mai stata persona che avesse timore di esporre i propri convincimenti, come, ad esempio, la sua scarsa simpatia per certe posizioni socialiste e progressiste. “Reato” grave nella Francia – parimenti o addirittura peggio in Italia – di allora, ove scrittori quali Philippe Sollers e Jean-Paul Sartre vennero, a nostro avviso, valutati ben oltre i loro meriti letterari solamente per il semplice fatto di essersi schierati apertamente da quella parte; sarebbe a dire, quella che per decenni nei salotti buoni di Europa venne considerata acriticamente la unica e giusta. Tali categorie ideologiche, come si può comprendere anche dalla lettura di questo volume, mal si adattavano a un artista come Ionesco, e diversamente non poteva essere nel caso del vero inventore del cosiddetto “Teatro dell'Assurdo”.

Se oggi quella lunga conversazione vede la luce in una versione più estesa, non è per un capriccio dell’autore, che vi ha rimesso mano, riprendendo le registrazioni originali, bensì in risposta a una peculiarità che ne giustifica la riproposizione sotto forma di libro: l’intervista è un documento e le pagine di cui si compone fanno “testo”, cioè danno vita a una forma saggistica particolarissima come quella “parlata”, nella fattispecie sul teatro e sulla poetica di Ionesco, le cui parole erano scomode ieri come oggi; anzi, ci sentiamo di aggiungere che il mondo globalizzato teme l'intelligenza, segnatamente quando anticonformista, e quella del notabile drammaturgo franco-rumeno lo era sicuramente.

Il navigato francesista Grasso qui assume pienamente il ruolo dell’intervistatore, accorgendosi di stare parlando con un gigante della Letteratura, e che quella occasione andava sfruttata al meglio, e così avviene, e lo fa con grande devozione, tenendosi tuttavia alla larga da complessi di inferiorità. Infatti, egli si mostra sicuro del fatto suo e pone domande precise, sapendo dove “guardare”, come prendere la mira, cosa aspettarsi, malgrado la imprevedibilità del suo acuto interlocutore. Grasso sollecita senza remore di sorta il Maestro che gli sta dinanzi; lo marca, lo incalza, solo talvolta lo asseconda, giacché non manca di esprimere dissenso o di proporre spunti diversi. Quando si mostra disposto a esserne felicemente soverchiato, è però determinato a portare a casa un risultato concreto, ed nella concretezza del pensiero espresso da Ionesco che si trova la qualità di questa pubblicazione, debitamente elaborata dal suo curatore. In sostanza, cosa ne viene fuori? Ben tre ore di conversazione!

Si scoprono i pensieri di uno scrittore “scomodo”

La intervista è un genere letterario problematico. Oggi come mai prima, la capacità di saper porre domande si è persa completamente. Si offende o, ancora più spesso, ci si piega, lusingando senza pudore, passando da quello che sarebbe un servizio culturale a un autentico disservizio ideologizzato. Fortunatamente, non è il caso del libro di Grasso. Ionesco stesso ci spiega quello che è forse il compito principale dello scrittore, ovvero il “porre interrogativi” e non “proporre soluzioni” (21).

Il testo si apre con l'utilissima Presentazione del giornalista Simone Gambacorta, il quale chiarisce come questo sia anche un “libro connettivo”, poiché stabilisce legami e indica prospettive. Gambacorta reitera con forza la importanza di sapere intervistare. Questo possiamo quasi definirlo un “sotto mestiere” del giornalismo, che non giunge a buon fine solamente ponendo delle domande, bensì ciò che conta è: “[...] avere qualcosa da dirsi” (5). E Ionesco parla, quasi si confessa, rimanendo comunque sempre solenne. Dalle sue parole, comprendiamo il motivo che ha spinto Grasso a mutuare nel sottotitolo del testo quello di una opera dell'intellettuale romeno Emil Cioran (1911 – 1995): De l'inconvénient d'être né (1973). Nella aperta citazione da parte del curatore a questo raffinato e, ingiustamente, ancora poco studiato autore, si sancisce con acume una parentela del disincanto; come, del resto, lo attesta: A proposito di Beckett, il breve saggio ioneschiano che conclude il volume e che dice di chi scrive non meno di quanto dica sull’autore di En attendant Godot (“Aspettando Godot”, 1952). Ionesco e Beckett, uniti dalla medesima inesorabile denuncia, con la differenza nell'essere più “politico” il primo, mentre più mentale il secondo, come viene spiegato anche dal curatore: “Rispetto a Beckett, il cui nichilismo appare assai meno umoristico, centrato soprattutto sul vuoto, Ionesco emette invece un grido sbigottito dinanzi al vuoto, segnalato dal riso” (29). Tale confronto sollecita a inquadrare meglio l'esistenzialismo di Ionesco, il quale, a differenza del collega irlandese, è vitale, tendente a rifiutare un ragionamento escapista: “La cosa più assurda è avere coscienza che l'esistenza umana è inaccettabile... e, nonostante tutto, aggrapparsi disperatamente a essa, coscienti e afflitti perché destinati a perdere ciò che non si sopporta [...]” (23). Dunque, l'inconveniente dell'essere in Ionesco è una presa d'atto delle cose, non una sterile, per quanto suggestiva, “attesa” come troviamo nell'opus beckettiano. A tal proposito, Ionesco rivendica, a parer nostro legittimamente, la paternità di quello che per primo il critico e scrittore ungherese Martin Esslin (1918 – 2002) definì come il “Teatro dell'Assurdo”. La Accademia internazionale ha, invece, sempre indicato proprio Beckett come l'iniziatore di questa corrente letteraria, poiché i lavori di costui non avevano quale scopo di raccontare nulla, anzi, precipuamente del nulla facevano il loro motivo di esistere. Dal canto suo, Ionesco non si è mai nascosto dietro “l'assurdo”; al contrario, egli lo ha utilizzato come punteruolo per cercare di scardinare la vuotezza mentale della epoca moderna, le sue numerose ipocrisie. Va da sé, che, in passato come ora, dire la verità, non importa poi in che modo, è considerato pericoloso per un determinato Pensiero Unico da decenni alla guida dell'Occidente. Questo sistema di potere culturale ha più e più volte cambiato di nome e forma, ma la sua malevola essenza è rimasta integra, e senza remore di sorta, affermiamo che di codesto Male Ionesco si riteneva fieramente nemico.

Ionesco, un antimoderno?

Stilisticamente, riscontriamo nel volume, specialmente nella parte precedente la intervista, una sorta di contrasto tra la scrittura di Grasso, con una ricerca talora “barocca” dei lemmi e l'alternanza di frasi brevi e lunghe, che è poi una delle prerogative di un titano come Joseph Conrad, e non tutti possono essere lui verrebbe da dire, con la esattezza delle risposte di Ionesco. Tuttavia, alla fine, il risultato complessivo è sostanzialmente armonico e la lettura si rivela piacevole. Inoltre, il curatore ha il merito, nonché il coraggio, di inquadrare le idee di Ionesco in una prospettiva che potremmo definire tradizionalista: “[...] l'uomo, scardinato dalla trascendenza, è un essere inghiottito dalle sabbie mobili dell'irrisorietà e dell'insignificanza, ricco dei suoi camuffamenti, dei suoi crucci, delle sue meschinità” (22). Tutto ciò sprona a porre delle basi nuove nello studio di questo scrittore; ovvero, una valutazione critica di Ionesco quale uno di quei tanti e validi antimoderni, le cui posizioni umane e politiche si sono volutamente non comprese. La forza di questo drammaturgo, quello che in determinati ambienti lo ha reso talora impopolare, è che il “suo” vuoto tale non è, poiché esso è colmo di uno strutturato scetticismo, tanto che il termine “assurdo” viene utile solo per definirne la forma, ma non la essenza, considerato, come ci spiega Grasso, che col teatro Ionesco intendeva: “[...] denunciare, senza falsi pudori, la dabbenaggine e l'insensatezza della condizione umana, viste come le plaghe [sic!] endemiche dell'uomo medio borghese” (22).

Intervista con Ionesco si potrebbe giudicare quasi un libro “meta-teatrale”, con il prologo critico del curatore che prepara il lettore all'azione recitativa, proprio come nei testi drammaturgici, quando a inizio di ciascun atto viene descritta la scena in cui si muoveranno i personaggi. E questa intervista che prende forma di pièce si svolge in un solo atto, nel confronto verbale tra due protagonisti isolati dal resto del mondo, cosa che ricorda paradossalmente lo stile del “rivale” Beckett. Nondimeno, questo libro ha pure una sua valenza per la ricerca, essendo un ottimo “strumento” per la francesistica tout court, consentendo di avvicinarsi in modo proficuo alla lettura e comprensione di questo autore. Il “tono” della intervista che Grasso raccoglie può essere riassunto nella ben nota ostilità di Ionesco verso Victor Hugo: “Resta poi la sua vita, la sua grandissima eloquenza, che mi ha sempre irritato e fatto inalberare, la sua grande vanità letteraria; e il perfetto grand'uomo, cioè la «nullità» fatta persona” (37). Nuovamente, il drammaturgo si dimostra senza falsi pudori, andando ad attaccare uno dei più pomposi idoli letterari transalpini, giacché egli possedeva un tipo di “intelligenza cattiva”, caratteristica che rese grande Louis-Ferdinand Céline, e che non gli faceva temere i canoni e i giudizi. Ed ecco che questo incontro avvenuto a Roma anni or sono ci rammenta come la opinione sia un qualcosa che ci accompagna sempre, benché sovente tentiamo pavidamente o, ancor peggio, ipocritamente di nascondere. Se, per converso, la si intende sbattere in faccia al mondo, come fece Ionesco con le sue opere e idee, allora bisogna esserne capaci; in altre parole, mostrarsi alla altezza dei propri preconcetti e idiosincrasie.

Lo stesso dicasi per le posizioni politiche, tutte particolari, di Ionesco, che Grasso inquadra perfettamente, definendolo uno: “smantellatore di falsi miti” (31), soprattutto del comunismo. Un altro motivo per il suo venire mal sopportato della intellighenzia europea, la quale ha per decenni contribuito a demolire tutti gli elementi portanti della cultura del Vecchio Continente. Condividiamo altresì le riflessioni espresse sempre da Gambacorta nella sua Presentazione, che spingono a ridefinire una volta per tutte Ionesco come un antimoderno: “[...] sapeva bene come la vera perversione globale consistesse nella prevalenza del dato storico su quello metafisico [...]” (6). Non è un caso, quindi, che lo scrittore vedesse come quasi pernicioso quel “realismo” che è l'antico dogma della sinistra, essendo sinonimo di “impegno”; parola di per sé vuota e sovente canalizzatrice di imbrogli intellettuali e bugie: “La letteratura realista è del tutto falsa perché tende a immeschinire in dimostrazione” (11). Tutto questo dovrebbe suggerire l'inserimento di Ionesco nel novero di quei pensatori anti-sistema di origine rumena come: il suddetto Cioran, Camilian Demetrescu e Mircea Eliade, ai quali si deve una potente difesa di una cultura solida, ma non immutabile, e profondamente spirituale.

Tirando le somme, sempre Gambacorta allude suggestivamente a una “consonanza estetica” (10) tra l'intervistato e l'intervistatore in questo piccolo e dotto volume ove si esorta a considerare la vita sostanzialmente come un inganno divino, concetto nodale nella visione del mondo di Ionesco. Forse per capire il grande autore franco-rumeno è utile accostarlo ancora una volta al suo collega irlandese, e il fatto che Beckett sia comunque presente in questo testo è un grande arricchimento, per avere una idea compiuta sul Teatro dell'Assurdo. Dunque, Ionesco esprime, ha vigore; mentre Beckett lascia puntualmente in un dubbio che si concreta in una attesa che sa spesso di malattia, proponendo un teatro sì di grandissima qualità, ma a suo modo esiziale. Per converso, Eugène Ionesco, malgrado la sua disillusione verso il senso stesso della vita, ci appare tutt'altro che rinunciatario. Invero, da perfetto antimoderno, egli fu poco attaccato alla esistenza come fatto materiale, ma di certo non si è risparmiato nella lotta verso le menzogne del progresso.

 

Intervista con Ionesco
L'inconveniente di essere nati
(con uno scritto dell’autore su Beckett)
Chieti, Solfanelli, 2017

Riccardo Rosati