Roland Barthes. La visione ottusa

03/11/2018

 

Dire di Roland Barthes (1915 – 1980) è dire della scrittura, del testo, della significanza, dell’ascolto, della seduzione stessa del lemma, nonché di una ricerca intellettuale quanto sentimentale sulla natura del discorso. Nell'affrontare il possente opus linguistico del grande studioso transalpino, ci si trova pienamente proiettati nella modernità e, paradossalmente, nel ricordo: tema al quale egli dedicò il suo fondamentale saggio sulla fotografia: La camera chiara. Nota sulla fotografia (“La Chambre claire. Note sur la photographie”, 1980). Il dettaglio esorbitante e inutile, quell'interstizio linguistico che segna l’incontro irripetibile e infunzionale della comunicazione; il singolo, ingiustificabile, ed eccedente elemento di una frase, che tuttavia ne connota il senso, queste furono le domande che ossessionarono colui che viene giustamente considerato come l'inventore della semiologia.

Tuttavia, non bisogna pensare a Barthes come a uno studioso intento a dare valore all'“incompiuto”. Infatti, la sua è stata una ricerca volta a una ricomposizione semantica della lingua, però prima di fare ciò, questa andava sezionata in singoli “pezzi”, i quali poi, seguendo la Scuola Strutturalista di cui fu uno dei maggiori esponenti, venivano messi in contrapposizione: animato/inanimato, dentro/fuori, ecc. L'antinomia che è possibile individuare nella lettura di un testo fu una delle principali passioni intellettuali del francese. La sua maestria la dimostrò nel conferire coerenza all'incoerente, risolvendo la contraddizione della scrittura, per mezzo di una parcellizzazione del senso, giacché Barthes con i suoi tanti scritti ci spiegò che la scrittura è anche inevitabilmente riscrittura, ascolto, spostamento di significato; il tutto per raggiungere una apertura che è irriducibilmente fuori dal potere dell'enunciato, della trascrizione e lontana dall’arroganza che tutto questo accompagna, scansando con coraggio quella protervia che pare essere una sorta di connaturata distorsione mentale nella maggior parte dei linguisti. Una visione “ottusa” quella di Barthes, nella quale la scrittura è un elemento che più che compreso va osservato come de-scrittura da quanto è prescritto o proscritto dalle fallaci certezze della mente moderna.

Una pubblicazione per scoprire il Barthes linguista

Su questo straordinario studioso è stato pubblicato pochi anni fa un volume di un certo interesse: Roland Barthes. La visione ottusa, nel quale sono stati riuniti i saggi di sei accademici italiani, nel tentativo di formare una silloge sull'opera di Barthes, benché quasi esclusivamente dal punto di vista linguistico, che fu in effetti il principale, anche se non il solo, suo campo di ricerca. Proprio in questa specializzazione tematica risiede il limite principale del testo, ovvero, che tra gli autori dei contributi non troviamo nessun francesista. Quindi, abbiamo a che fare con una lettura di Barthes essenzialmente da una prospettiva scientifico-semantica, anzi, più precisamente semiologica, tralasciando la produzione più prettamente letteraria e culturale di questo ricercatore. Sia chiaro, non intendiamo certo farne una colpa agli autori del libro, i quali, essendo a loro volta dei linguisti, si sono giustamente interessati a un determinato e cruciale ambito della produzione barthesiana. Invero, se c'è qualcuno che andrebbe criticato, questi sono i francesisti nostrani, che mai hanno mostrato verso Barthes l'interesse che meriterebbe uno studioso di tale livello.

Il libro in questione è composto da sei saggi, più una Presentazione. Questi scritti si concentrano quasi tutti completamente sul rapporto tra l'erudito francese e la lingua, ripercorrendo le varie fasi teoretiche che si sono susseguite in Barthes. Forse l'unico contributo qui incluso che si discosta da questa stretta interpretazione disciplinare è quello di Susan Petrilli: L'erotico, l'altro, il tacere (103-115), in cui si parte sì su come Barthes analizzi il “discorso amoroso”, ma essenzialmente per capire anche quelli che erano i ragionamenti di questo autore sull'individuo e i suoi molteplici e contraddittori stati d'animo, non vincolandosi perciò al rapporto tra Barthes e il linguaggio.

Alcuni dei contenuti del libro

Giuseppe Mininni, nel suo saggio: Metasemiologia come teoria critica dell'ideologia (27-58), definisce in modo per noi quasi perfetto la specifica caratteristica degli scritti barthesiani: “L'opera di Barthes tuttavia, [...], è così complessa e variegata, da prestarsi – secondo le stesse aspettative dell'autore – a diverse maniere di riscrittura” (27). Il saggio di Mininni è da considerarsi forse il più esaustivo per chi avesse intenzione di comprendere quelle che sono le principali tematiche che ricorrono quasi insistentemente nel “Barthes linguista”. Ci teniamo a puntualizzare questo aspetto, visto che, come già abbiamo avuto modo di accennare, il francese non si limitò soltanto al linguaggio nelle sue preziose ricerche. Barthes – certo, partendo sovente da una analisi lessico-testuale – tentò di rintracciare il segno nella cultura occidentale e non (a tal proposito, come non ricordare il suo: L'impero dei segni, “L'Empire des signes”, 1970, eccelso scritto di odeporica, ove Barthes seziona, per poi ricomporli, alcuni aspetti caratteristici della cultura giapponese, sia tradizionale, che moderna) quale elemento chiave di un tessuto sociale che nel testo scritto trova una sua forma “codificata”, e quest'ultima, mutuando proprio una idea di Barthes, andava “ritradotta”, privata del vincolante senso della parola, affinché possa essere compresa. Tutto questo per dire, segnatamente a coloro che poco conoscono questo studioso, che testo e vita in Barthes sono parti duali e, contemporaneamente, antagoniste tra loro.

Tornando al libro oggetto di questa recensione, Augusto Ponzio, nella sua Presentazione del volume, dal titolo: Ascoltando la voce di Barthes (7-10), parla della “scrittura neutra” presente nei lavori di Barthes. In effetti, non possiamo che convenire con lui sul fatto che il francese, non importa quale fosse il tema trattato, cercava sempre di mantenere un certo “distacco” sia dal soggetto analizzato, sia dall'analisi stessa da lui condotta. Ciò ha spinto gli studiosi di Barthes, incluso chi scrive, a considerarlo un autore “freddo”, seppur mai cinico; puntualmente incline a fare della lingua un mezzo per sezionare la cultura, suddividendola, da bravo strutturalista qual era, in segmenti opponibili. Purtroppo o per fortuna, onestamente non abbiamo ancora raggiunto una opinione su questo, il suddetto distacco barthesiano è stato demolito dall'uscita qualche anno fa del libro: I carnet di viaggio in Cina (pubblicato per la prima volta in Francia solamente nel 2009, a cura di Anne Herschberg, poi in Italia nel 2015 da O barra O), in cui il confronto con la Cina postmaoista, sebbene ancora fortemente comunista, gli genera una tale irritazione, da prendergli la mano e mandarlo addirittura in confusione, tanto che è lo stesso Barthes a dichiarare in questi suoi appunti di arrendersi, e insieme a lui si arrende pure la sua scrittura: “Tutte queste note attesteranno probabilmente il fallimento in questo paese della mia scrittura” (14).

Passiamo ora a quel senso ottuso che dà il titolo al volume; così ce lo descrive Julia Ponzio, nel saggio: Il ritmo e le nuances. La dimensione musicale del testo in La Préparation du roman (11-25), “Come senso ovvio e senso ottuso siano legati l'uno alla ripetizione continua e l'altro alla ripetizione discontinua, Barthes lo spiega molto bene ne Il piacere del testo” (18). Grazie al contributo della Ponzio, viene chiarito non solo il motivo per la scelta di quell'aggettivo “ottuso” nel titolo del volume, ma in questa analisi si sintetizza altresì quel rapporto affascinante, malgrado in alcuni casi quasi contorto, tra Barthes e la Letteratura, che noi, comuni lettori o studiosi, intendiamo come “narrazione”, quando invece il transalpino lo concepiva come segno, la cui valenza grafica in Barthes sovente si ribella a quella prettamente semantica: “Il senso ottuso è un significante senza significato” (21). Sempre la Ponzio afferma che in Barthes la scrittura deve arrivare a un “tilt”, ossia a un incastro amoroso, nel creare un rapporto insostituibile – questo è simile al “punctum” nella esegesi barthesiana della fotografia (22).

Tornando al sopracitato scritto di Giuseppe Mininni, in queste pagine, nelle quali l'autore si divide tra le teorie di Barthes e quelle del di lui connazionale e collega Louis-Jean Calvet, si arriva a comprendere che, riprendendo le parole dello stesso Barthes, ciò che conta veramente nella linguistica, declinata nella sua interpretazione semiologica, è la totalità della parola: “la funzione del discorso […] è di non lasciare nulla al di fuori della parola e di non concedere al mondo nessuna ineffabilità” (51). Prima si è accennato a come una piccola debolezza, o forse incompiutezza, in questo libro stia nel non aver dato maggiore spazio alle riflessioni di Barthes oltre il linguaggio. Ecco, ci permettiamo su ciò una minima critica; sarebbe a dire, che per essere una silloge a opera di soli linguisti, le troppe ripetizioni delle medesime parole – in fondo i sinonimi servono precipuamente a evitare tali problemi stilistici – ci hanno fatto a tratti storcere il naso. Sfortunatamente, viviamo in una epoca contaminante, quindi addirittura degli studiosi altamente specializzati inciampano nell'impoverimento del lessico che caratterizza questo occidente americanizzato. La questione dell'influenza della “cultura” americana sulle società europee era già stata sapientemente affrontata da Julius Evola in vari suoi articoli giornalistici sull'America, e ai quali rimandiamo il lettore, che vennero pubblicati nell’ampio intervallo di tempo 1930 – 1968 (Cfr. Julius Evola, Civiltà americana. Scritti sugli Stati Uniti 1930-1968, a cura di Alberto Lombardo, Napoli, Controcorrente, 2010).

Il distacco ideologico in Barthes

Continuando un ragionamento di impronta “politica”, però riconducibile nella fattispecie a Barthes, nuovamente lo scritto di Giuseppe Mininni ci offre la giusta prospettiva, stavolta parlando di Calvet, nel ravvisare una dimensione ideologica nella analisi linguistica (30). In realtà, potrebbe sembrare di primo acchito quantomeno inusuale ascrivere al pensiero di Barthes una matrice ideologica. Ciò è senz'altro vero a partire da subito dopo l'uscita dei Miti d'oggi (“Mythologies”, 1957), poiché successivamente a questo lavoro, scema costantemente l'impegno politico in Barthes. Nondimeno, nei suoi primi scritti, riprendendo le posizioni di uno studioso per lui di riferimento come Claude Lévi-Strauss (1908 – 2009), l'accademico francese mantiene quell'impegno, anche politico, all'interno della sua ricerca, condividendo proprio col collega strutturalista Lévi-Strauss una lettura della società non immune dalle influenze marxiste che allora andavano per la maggiore. Purtuttavia, nel racconto che Mininni fa del pensiero di Calvet e della sua “riscrittura” di Barthes, sentiamo di non concordare pienamente con la visione sin troppo ideologizzata che nella interpretazione di Calvet si dà di Barthes, ad esempio, quando si parla di come in quest'ultimo vi fosse una “teoria marxista del segno” (35). Ciò detto, nel lungo saggio dedicato a questi due studiosi, non possiamo che essere d'accordo con Calvet sul fatto che nel dominio del linguaggio soltanto una analisi ipocrita ne negherebbe la ineludibile questione politica, giacché, e pure in questo Calvet ha sacrosantamente ragione, qualsivoglia teoria sulla lingua non parte mai da una posizione neutrale, bensì essa ha sempre e comunque alla sua base un “progetto”, qualcosa che si intende dimostrare e che va evidentemente al di là del mero studio disciplinare.

Il linguaggio ci impone una definizione

Tirando le somme, possiamo dire che questa raccolta di contributi scientifici ci aiuta a comprendere come in Barthes fosse costante una pulsione verso una indagine sulla natura linguistica del mondo, la quale egli stesso riassume col geniale termine di “logosfera”, poiché in lui il mondo è parola, nominazione. Eppure Barthes andò ben oltre la parola, come sostiene giustamente ancora Mininni: “[...] non più solo il battagliero dissolvitore di cortine ideologiche, ma il raffinato conoscitore dell'animo umano e dei suoi segni, l'intellettuale geloso della sua capacità di creare il mondo, l'esteta ripiegato su di sé che trova un ultimo lampo di gioia ad illuminare la sua sconfitta” (38). Ragion per cui, come viene osservato in alcune parti di questo volume, è necessario oltrepassare i “due Barthes” (il linguista e il letterato), per scoprire che alla fine è più corretto parlare di tanti Barthes, ossia di una mente incline a quella “molteplicità” tanto cara a Italo Calvino, che proprio di Barthes fu un grande estimatore. Quello che ci auguriamo è che sia il francesista che il lettore erudito comprendano l'importanza degli scritti dello studioso francese; pertanto ci uniamo a quell'invito di Calvet a leggere Barthes, che potrebbe fungere da degna conclusione della nostra recensione: “Riterrò riuscito questo mio lavoro infatti solo se il lettore troverà in esso lo stimolo a leggere i testi di Barthes” (28), non fosse altro però che sentiamo doveroso ricordare in ultimissima battuta che la grande lezione che Barthes ci ha lasciato sta nell'accorgersi che “la lingua è fascista” (118). In altre parole, essa non ci impedisce di parlare, al contrario, ci costringe a dire.

 

Riccardo Rosati