
Pochi giorni fa moriva Luciano De Crescenzo, classe 1928 (alle spalle aveva dunque novantuno primavere). Ricordato anche per l’amicizia con Renzo Arbore (con cui collaborò nei due film il “Papocchio” e “FF SS …”), fu pure – e forse soprattutto – scrittore e divulgatore, con una dozzina di titoli dedicati alla storia della filosofia (in primis la filosofia greca: tant’è che la città di Atene lo volle suo cittadino onorario, nel 1994), oltre a romanzi e saggi vari. Ironico e signorile, anche lui gentiluomo delle sue terre (e se n’è perso lo stampo!), ha saputo farci ridere della “sua” Napoli, ma anche della “nostra” napoletanità, mostrandoci quanto furbizie e fantasie, e certi ‘sfagli’ del nostro vivere, possano sì intonarsi al “colore locale” di una Napoli sempre un po’ rappezzata, ma siano in realtà e per sempre universali, di tutti noi. Rimane alla memoria il suo sorriso, beffardo e malinconico, quasi a scusarsi per esser chiamato altrove…
De Crescenzo in realtà cominciò come ingegnere, lungamente disoccupato: e fu quindi venditore di tappeti, e cronometrista alle Olimpiadi, arrangiandosi fino all’emigrazione a Milano, dove lavorò in IBM per vent’anni, prima di dedicarsi alla sua vocazione. Di lì in avanti fu quindi scrittore, sceneggiatore (con Sergio Corbucci ne “La mazzetta” e con la Wertmuller in “Sabato, domenica e lunedì”), diventando – tra l’altro – ambasciatore di Napoli del mondo: tradotti in 19 lingue e pubblicati in 25 paesi (godibile il titolo dell’edizione tedesca “Also sprach Bellavista” …) le sue Storie della Filosofia e i suoi romanzi han venduto circa diciotto milioni di copie, più della metà all’estero.
Fu poi, finalmente, regista, con l’acclamato (all’epoca: era il 1984) “Così parlò Bellavista”, recentemente portato a teatro da Geppi Gleijeses: impagabile ritratto della Napoli contemporanea, affettuoso ma disincantato, dolce amaro e un po’ malinconico, è impossibile pensare a De Crescenzo senza il suo Bellavista, cui davvero molto ha dato di sé..

“Bellavista” è un racconto che evoca personaggi memorabili, quasi paradigmatici: giocando con il luogo comune e il gusto macchiettistico, allinea in bell’ordine nel cortile d’un palazzo ‘borghese’ della Napoli bene un presepe vivente, che comprende (tra gli altri): un poeta partenope compulsivo e iterativo, di dubbia fama e scarsa ispirazione, ma genuina buona fede; un netturbino nato stanco e fermamente deciso a rimanerlo.
Last but not least, un portiere, Armando, personaggio immoto e silente, che accende la fantasia classicista di Bellavista (“Armando, il portiere, è figura mitologica: metà uomo e metà sedia”), corredato di un Sostituto portiere e di un Vice Sostituto portiere: il che rappresenta – in sineddoche (sic!) - quella proliferazione di sinecure e responsabilità fittizie, di titoli e liturgie che è menzogna e mistificazione: ma qui è benevola, consolatoria, che aiuta a vivere comunque, oltre la pochezza e la disperazione.
A tutti e per tutti, lui, Bellavista, professore di filosofia in pensione, racconta e spiega e interpreta la filosofia: non già quella aulica, classica, greca. Consapevole del bisogno di modernità e di salvezza, dal quotidiano, disperante, logorante vivere napoletano, l’ex-prof con arguzia e pazienza cala i concetti, lima e smussa i toni e il linguaggio, cucendo un pezzo alla volta una mappa, una Forma Urbis a dimensione partenopea. Racconta le vite dei filosofi e il loro pensiero, vestendoli in qualche modo di panni partenopei: e mostra così che davvero la filosofia è universale, davvero le nostre domande son sempre le stesse, e le risposte (quelle poche) non cambiano nemmeno loro. In quel magico teatrino che è il cortile del condominio, Bellavista tiene banco, spiega, chiarisce, indirizza gli sguardi della sua ‘classe’ di fuori corso.
Fuori invece, la vita continua: ci sono figlie ribelli (e incinte) da far sposare, e poi quindi generi cui trovare lavoro (con il placet della camorra…), mogli da tenere a bada, cameriere impertinenti da rimettere in riga. Ma la girandola di “distrazioni materiali” diventerà comunque l’ulteriore terreno d’esercizio e di insegnamento: magari più malinconico e rassegnato, meno avventuroso.
Questo era Bellavista, e questo era De Crescenzo: scanzonato e disincantato, idealista e geniale divulgatore della “sua” filosofia, compagno di Arbore nelle scorribande tra satira e grottesco, beffardo e malinconico insieme. Perché la vita è una tragedia, ma non è una cosa seria, e sempre deve esserci il tempo pe’ nu’ caffè …