Coś se ne anḍ Bellavista: un ricordo di Luciano De Crescenzo

23/07/2019

Pochi giorni fa moriva Luciano De Crescenzo, classe 1928 (alle spalle aveva dunque novantuno primavere). Ricordato anche per l’amicizia con Renzo Arbore (con cui collaborò nei due film il “Papocchio” e “FF SS …”), fu pure – e forse soprattutto – scrittore e divulgatore, con una dozzina di titoli dedicati alla storia della filosofia (in primis la filosofia greca: tant’è che la città di Atene lo volle suo cittadino onorario, nel 1994), oltre a romanzi e saggi vari. Ironico e signorile, anche lui gentiluomo delle sue terre (e se n’è perso lo stampo!), ha saputo farci ridere della “sua” Napoli, ma anche della “nostra” napoletanità, mostrandoci quanto furbizie e fantasie, e certi ‘sfagli’ del nostro vivere, possano sì intonarsi al “colore locale” di una Napoli sempre un po’ rappezzata, ma siano in realtà e per sempre universali, di tutti noi. Rimane alla memoria il suo sorriso, beffardo e malinconico, quasi a scusarsi per esser chiamato altrove…

De Crescenzo in realtà cominciò come ingegnere, lungamente disoccupato: e fu quindi venditore di tappeti, e cronometrista alle Olimpiadi, arrangiandosi fino all’emigrazione a Milano, dove lavorò in IBM per vent’anni, prima di dedicarsi alla sua vocazione. Di lì in avanti fu quindi scrittore, sceneggiatore (con Sergio Corbucci ne “La mazzetta” e con la Wertmuller in “Sabato, domenica e lunedì”), diventando – tra l’altro – ambasciatore di Napoli del mondo: tradotti in 19 lingue e pubblicati in 25 paesi (godibile il titolo dell’edizione tedesca “Also sprach Bellavista” …) le sue Storie della Filosofia e i suoi romanzi han venduto circa diciotto milioni di copie, più della metà all’estero.
Fu poi, finalmente, regista, con l’acclamato (all’epoca: era il 1984) “Così parlò Bellavista”, recentemente portato a teatro da Geppi Gleijeses: impagabile ritratto della Napoli contemporanea, affettuoso ma disincantato, dolce amaro e un po’ malinconico, è impossibile pensare a De Crescenzo senza il suo Bellavista, cui davvero molto ha dato di sé..

“Bellavista” è un racconto che evoca personaggi memorabili, quasi paradigmatici: giocando con il luogo comune e il gusto macchiettistico, allinea in bell’ordine nel cortile d’un palazzo ‘borghese’ della Napoli bene un presepe vivente, che comprende (tra gli altri): un poeta partenope compulsivo e iterativo, di dubbia fama e scarsa ispirazione, ma genuina buona fede; un netturbino nato stanco e fermamente deciso a rimanerlo.
Last but not least, un portiere, Armando, personaggio immoto e silente, che accende la fantasia classicista di Bellavista (“Armando, il portiere, è figura mitologica: metà uomo e metà sedia”), corredato di un Sostituto portiere e di un Vice Sostituto portiere: il che rappresenta – in sineddoche (sic!) - quella proliferazione di sinecure e responsabilità fittizie, di titoli e liturgie che è menzogna e mistificazione: ma qui è benevola, consolatoria, che aiuta a vivere comunque, oltre la pochezza e la disperazione.
A tutti e per tutti, lui, Bellavista, professore di filosofia in pensione, racconta e spiega e interpreta la filosofia: non già quella aulica, classica, greca. Consapevole del bisogno di modernità e di salvezza, dal quotidiano, disperante, logorante vivere napoletano, l’ex-prof con arguzia e pazienza cala i concetti, lima e smussa i toni e il linguaggio, cucendo un pezzo alla volta una mappa, una Forma Urbis a dimensione partenopea. Racconta le vite dei filosofi e il loro pensiero, vestendoli in qualche modo di panni partenopei: e mostra così che davvero la filosofia è universale, davvero le nostre domande son sempre le stesse, e le risposte (quelle poche) non cambiano nemmeno loro. In quel magico teatrino che è il cortile del condominio, Bellavista tiene banco, spiega, chiarisce,  indirizza gli sguardi della sua ‘classe’ di fuori corso.
Fuori invece, la vita continua: ci sono figlie ribelli (e incinte) da far sposare, e poi quindi generi cui trovare lavoro (con il placet della camorra…), mogli da tenere a bada, cameriere impertinenti da rimettere in riga. Ma la girandola di “distrazioni materiali” diventerà comunque l’ulteriore terreno d’esercizio e di insegnamento: magari più malinconico e rassegnato, meno avventuroso.
Questo era Bellavista, e questo era De Crescenzo: scanzonato e disincantato, idealista e geniale divulgatore della “sua” filosofia, compagno di Arbore nelle scorribande tra satira e grottesco, beffardo e malinconico insieme. Perché la vita è una tragedia, ma non è una cosa seria, e sempre deve esserci il tempo pe’ nu’ caffè …

Davide Benedetto