
Che fine fa un Colibrì intrappolato sotto il sedere di un Elefante? Ce lo racconta Sandro Veronesi nella sua ultima fatica "Il Colibrì", Ed. La Nave di Teseo 2019, con il quale conquista il suo secondo Premio Strega dopo Caos Calmo.
Marco, il protagonista, è il minuscolo volatile che resta stallato sui pistilli dei fiori grazie al moto e alla frequenza elevata del battito delle sue ali. Lui, oftalmologo ossessionato dagli psichiatri e dalla psichiatria perché, in fondo, tutti i suoi conoscenti e affetti maggiori sono passati per le mani di un analista, ben prima di morire o di suicidarsi. O, forse, l'hanno fatto proprio per quello. Vallo a sapere. Il romanzo è una grande cavalcata sulla morte e sulla mancata remissione del lutto, al singolare come al plurale. E, giustamente, il più grande amico di gioventù dello sfortunato Marco è proprio un grandissimo iettatore, Duccio, che con i suoi anatemi gli salva la vita ma nel farlo subisce dal protagonista la più atroce delle condanne sociali. "Il Colibrì" è una storia di donne, raccontata attraverso le vicende e gli occhi di un ragazzo e poi di un uomo e, infine, di un anziano.
Un racconto, cioè, dove l'amore e la sua illusione hanno un verso e una direzione soltanto: quella del protagonista Marco Carrera verso, rispettivamente: sua sorella Irene, introversa, intelligentissima e altrettanto caratteriale, morta giovane e suicida; la madre Letizia raffinatissimo architetto e intellettuale; Luisa il suo grande amore (ahimé) rimasto platonico per la folle volontà degli interessati; la moglie Marina venuta dall'Est Europa sposata per un inganno e un malinteso; la figlia Adele, ragazza madre, morta giovane non si sa bene se suicida scalando una montagna; la nipotina Miraijin, figlia di Adele che in giapponese significa "uomo del futuro". E anche se in questo caso si tratta di una bambina, va benissimo lo stesso. Dopo l'irrisolto, terribile e paralizzante lutto dell'amatissima sorella Irene, ecco arrivare l'uno-due della scomparsa a poca distanza di tempo, a causa di tumori devastanti quanto dolorosi e rapidi, della madre Letizia e del padre Probo, ingegnoso e introverso ingegnere modellista con la passione per i plastici dei trenini. Cosicché al povero Colibrì non rimane altro che spostarsi da un campo di crisantemi a un altro fino a portare le sue vibranti ali nel pozzo senza fondo della scomparsa di Adele.
Ma lui non ce l'avrebbe fatta a stare fermo con tutto quel mondo che gli girava vorticosamente attorno, per cui erano le varie aree geografiche del mappamondo a scorrere sotto i suoi piedi attraverso i racconti di altri. Come quelli del fratello Giacomo sparito nella Fossa delle Marianne del mondo universitario statunitense e rimasto silente per decenni, resistendo all'effluvio di corrispondenza epistolare del fratello Marco. Come l'epistolario con le avventure di Luisa, girovaga tra Parigi e Firenze. Sarà tuttavia proprio l'analista, medico psichiatra della ex moglie Marina (nel frattempo rinchiusa in un ospedale psichiatrico a Vienna), certo Dr. Carradori, a inchiodarlo sull'esigenza di realtà costringendolo a restare con i piedi ben saldi a terra. Proprio quel Carradori che ha abbandonato in stretta sequenza la professione e il tennis, suo sport preferito, dopo aver incontrato altrettante volte Marco. Così, il ludopatico Carrera, pokerista incallito, riscopre quel suo vizio antico per mondare il dolore della perdita dell'adorata figlia, portandosi dietro la piccolissima nipotina sistemata in un'amaca pieghevole, a dormire tranquilla e beata nelle stanze dell'appartamento privato in cui si giocava clandestinamente d'azzardo.
L’ultima parte del romanzo però sconcerta per l'assenza di verosimiglianza e di coerenza narrativa. Come se l’Autore avesse deciso di scrivere lui un libro inedito di fantascienza per pubblicarlo nella serie di Urania, di cui Probo, il padre di Marco, era un collezionista ossessivo e lettore affezionatissimo. Forse, scivolare nell’Utopia del Salvador Mundi al femminile può essere una risorsa per chi, anche se ricco e famoso, è costretto a vivere in un mondo malato come questo! Veronesi descrive il suo protagonista come quasi fermo sulle dinamiche di partenza generate da giovani donne (tre ragazze, tra cui la sorella suicida del protagonista) per raccontare storie di dolore, di felicità e di tradimenti. L'Autore smantella il tempo e dà una risposta che sta tra il disegno di Dio e il caso. Perché poi è ben vero che l'autoconsapevolezza anche per il protagonista si apprende vivendo, nel cercare di sopravvivere come può ai tanti lutti, analoghi a quelli che accompagnano il racconto di una esistenza normale.
Marco Carrera vive intensamente quelle tre vite di donne (sorella, figlia, nipote), due delle quali si sono spente prematuramente, con la sorella Irene suicida e la figlia Agnese deceduta a seguito di un incidente di cui rimangono ignote le cause. Tutte e due hanno, in fondo, un destino comune: essendo nate nel tempo sbagliato, provano a crescere mentre si ribellano alle loro famiglie borghesi. Solo la nipotina troverà la sua culla nella prosa che riguarda la vita di Marco. La struttura del libro ha una freccia del tempo che va avanti e indietro in maniera un po' random mettendo assieme nel racconto, quasi per caso e senza un preciso ordine cronologico, i frantumi della vita di un uomo a pezzi. Eppure, nel tempo, proprio quelle parti separate tenderanno tutte a riavvicinarsi per restituire con un moto armonico il disegno originario. Marco, un protagonista al quale forse ognuno di noi vorrebbe assomigliare, per essere divenuto un super padre tutto proiettato verso l'amore per la nipote. Anche il filo che corre dietro la schiena di Adele costituisce la nervatura del racconto e fa parte di un disturbo reale di una persona vera (ma al maschile). Confessa Veronesi: "I miei amici scrittori, che conoscevano quella storia del filo, in trenta anni non hanno pubblicato nulla in proposito: così me ne sono appropriato io per uso capione!". Ed è per questo che Adele, la figlia di Marco, quando viene portata nella fattoria rimane sul pullman: perché ha paura che il suo filo posteriore faccia del male agli animali!
"Se un bambino ha il filo nella schiena allora tutti i bambini immaginati dalla mia scrittura (singolare e non molto ordinata) hanno quel filo, al quale ho sentito il bisogno di legare una vita concreta: tutto il dolore trasportato dalla storia si concentra in diversi momenti precisi che creano parossismo. Questo perché non bisogna mai concentrare tanto dolore in punto soltanto, altrimenti il lettore tende a mollare. Lo scorrimento alleggerisce, lenisce il trauma. Il dolore è forza vitale. La perdita è una forma di crescita e di investimento della propria libido. In natura funziona tutto così. Perché si soffre terribilmente quando si perde un oggetto amato. Ma tanto più lo ami tanto più si libera forza vitale per essere investita in altri oggetti d’amore! Di donne ce n'è anche una quarta, Luisa. Con una ragazza di 16 anni (quanti ne aveva lei quando il protagonista se ne innamora) non puoi vivere un rapporto se ne hai 20. Nel romanzo il loro rimane un amore platonico per tutta la vita avendo scelto di amarsi a distanza. Le cose importanti infatti capitano quando stanno da soli. Anche nel trattare figure di donne tendo a vedere in loro delle ragazze. Irene è lo zampirone dell’infelicità di casa che aspira tutta quell'atmosfera malata familiare e la storia si struttura tra maggiorenni e adolescenti. Se questi ultimi non si sbrigano a fare da soli non rimarrà loro più niente. Chi ha dieci anni oggi che farà quando ne avrà 80? Nei ragazzi si colloca la speranza del libro. Tant'è vero che per Marco non è la paternità il suo destino ma quella di essere nonno. E sarà proprio sua nipote la vera missione del suo mandato biologico. Praticamente, l’uomo del futuro è una donna".
Le morti sono il nucleo centrale del libro e "Colibrì" ha in fondo la forma di una preghiera: nel romanzo precedente la morte avviene per l’iniezione del veleno da parte di un’infermiera, mentre qui è la stessa mano di Marco ad agire. Esiste una grande differenza tra lutto e dolore e il libro racconta dell’importanza di ricercare l’energia vitale dopo una morte. Dice Veronesi: "Il dolore ci mortifica e una volta dovevi portare a lungo il lutto. Invece è proprio quello il momento di uscire fuori e andarsi a divertire. Anche a me, dopo la morte di mio padre, è successo di fare un viaggio a forza costretto da mia moglie, che mi ha trascinato in America per ribellarmi al lutto. Se esci dal dolore ritualizzato migliori te stesso. Però è vero che bisogna morire più vicini nel tempo tra moglie e marito. Qui il padre non è stato capace di rassegnarsi alla morte prematura della sua compagna, anche se statisticamente in genere sono più le vedove dei vedovi. Il genitore che resta ingombra di più con il suo lutto doloroso. Talvolta è la vedova a reagire meglio dei figli facendo un viaggio incredibile".
"Chi se ne va per primo lascia un grande vuoto e gli oggetti ricordano al sopravvissuto l'investimento affettivo che li caratterizza, come possono essere i mobili preziosi scelti assieme a chi non c'è più. Nel romanzo, nessuno dopo la morte di Irene si siede più su quei preziosi divani. Del resto, gli etruschi ci mettevano dentro anche la roba nelle tombe: chi restava gliela tirava dietro e nessuno si appropriava mai delle cose dei defunti e dei loro rapporti. Qui il padre di Marco è un modellista e sua madre un architetto dalla cultura radicale che conosce a menadito un difficilissimo manuale d'architettura che parla della forma di ogni cosa che è già contenuta nel suo primo manifestarsi. Per quanto riguarda il romanzo, ritenevo che ogni mia cosa dovesse essere rappresentata in un nucleo autosufficiente. I ritratti dei personaggi, in fondo, contengono in nuce tutta la storia, come quando racconto del plastico di Probo (padre di Marco) dove c’è un sotto un espediente invisibile che appare generare un moto continuo..".
La chiave del romanzo e dei suoi personaggi sta in un sogno che fa il protagonista e nel racconto di quella notte fatidica sulla spiaggia quando erano tutti giovani, prima dello scatenarsi del dramma. Un istante perfetto di giovinezza con tanti protagonisti che non avrebbero mai voluto superarla, come fa la madre di Marco con la sua pretesa di tenere per sé e per sempre il suo figlio più piccolo, che non doveva crescere rimanendo un.. colibrì. Invece è proprio Marco che intende andare oltre quella notte in cui muore suicida sua sorella. "Bastano due sguardi per capire che dopo la morte non cambia nulla: il posto resterà lo stesso come pure rimarranno intatti i ricordi comuni con il fratello. Eppure, quella notte Marco non la dimenticherà mai ed è solo lui a prendere il colpo da ko e a resistergli nonostante tutto. Nella vita reale troppe famiglie sono tormentate da un lutto che non si è riusciti a superare. Anche il protagonista quella notte del suicidio perde tutto l'universo che gravitava intorno alla sorella e per lui, a quel punto, finisce lì la sua giovinezza. Ma le cose interrotte possono rinascere a nuova vita. Così Marco mette i piedi nel dolce domani di ciò che aspetta i loro genitori dopo la morte dei figli e che è il luogo mentale per la speranza di vivere. Marco punta tutto su sua nipote ma deve trovarsi lì con lei anche dopo la scomparsa di sua figlia Adele: lui ci deve essere per avere infine la sua ricompensa".