
Non è un mistero: l’arte contemporanea è sfuggente e manca di riferimenti visivi immediati. La maggior parte delle persone la avverte come qualcosa di lontano, utile solo per chi voglia ergersi al di sopra della massa con supponenza. Al massimo, viene percepita come una sottigliezza riservata agli addetti ai lavori. “Quello potevo farlo anch’io” e “Quel tipo di arte non mi dice niente” sono diciture onnipresenti nelle conversazioni quotidiane. Colpa, in gran parte, di un mondo accademico e divulgativo che ha deciso di chiudersi in sé, crogiolandosi nel proprio nozionismo. Abituati forse a considerare “arte” solo ciò che riproduce fedelmente gli oggetti del mondo (in questo presumiamo di trovare il talento dell’artista), o a trarre il significato di un’opera attraverso una concomitanza di elementi simbolici realizzati con grazia, ci dimentichiamo del contesto attuale che dà vita a un certo tipo di estetica. È difficile immaginare la concezione armoniosa tipica della pittura figurativa, ad esempio, in un contesto attuale dove ogni certezza umana è stata polverizzata dal relativismo culturale, dall’avanzamento della fisica e della chimica, dall’incertezza e le angosce del mondo consumistico. Il buon Alessandro Carnevale dibatte questo tema, senza dare giudizi morali di sorta, ma interpretando e fornendo le proprie opinioni con immensa onestà intellettuale.
Alessandro Carnevale è artista, musicista, professore di storia dell’arte. Arrivato al grande pubblico grazie alla partecipazione al programma “Il Collegio”, su Rai 2, Carnevale copre anche il ruolo di divulgatore d’arte e semiotica visiva attraverso i canali social che utilizza (maggiormente Instagram e YouTube). Ascoltarlo è sempre un piacere. Hai l’impressione di stare dialogando con un amico che condivide una tua stessa passione, ma che inevitabilmente ne sa molto più di te. Poco male, è un’occasione per imparare e cambiare la propria prospettiva. Il punto forte della comunicazione di Carnevale è senz’altro l’assoluta mancanza di spocchia con cui tratta argomenti a volte poco digeribili ai più. Spesso il Prof. si ritrova a difendere cause perse quali la “banana attaccata con lo scotch” di Maurizio Cattelan (il cui titolo vero è “Comedian”), dando però estremo valore alle perplessità degli scettici. Carnevale, inoltre, riesce a fare qualcosa che in primis la scuola, ma non solo, ha abbandonato da tempo: parlare di cultura, collegandola con le strutture più importanti del mondo in cui viviamo. Perché dovrei emozionarmi davanti all’orinatoio di Duchamp, se non ho alcun modo di connetterlo con quello che mi scuote interiormente? È evidente qui la caratura dell’esperienza “didattica” dell’autore, abile nel far arrivare messaggi in modo nitido e alla portata di chiunque.
“Da Instagram alla Lattuga: dove si nasconde l’arte e perché abbiamo ancora bisogno di lei” è pregno dell’umiltà di chi conosce e vuole condividere, con l’obiettivo di coinvolgere più persone possibili. Lo stile del libro è chiaro e lineare, nonostante ci si ritrovi spesso a balzare da un’epoca all’altra della storia dell’arte. I riferimenti sono, per la maggior parte, relativi al periodo nato dalla nascita della società dei consumi e di massa, ma non mancano riflessioni che coadiuvano, ad esempio, il Rinascimento e le avanguardie surrealiste. La domanda affrontata nel corso delle pagine risulta essere: “a cosa serve l’arte contemporanea?” Carnevale elabora, in nove capitoli, una critica lucida e strutturata della società della “post-verità”, delle relazioni che avvengono unicamente tramite gli apprezzamenti via social, della polarizzazione e abbattimento del pensiero – innescato da chi controlla algoritmi e preferenze per interessi di profitto –, degli orrori del capitalismo consumista. Instagram viene preso come modello di piattaforma da prendere in esame. Non poteva essere altrimenti, dato lo strapotere della visualità e della velocità degli scambi di informazioni nel mondo odierno. La presenza ossessiva e il costante bisogno di catturare l’attenzione degli utenti risultano essere i pilastri di questi siti. Viene premiato chi appare spontaneo e reale, nel nome della caduta dell’intermediazione tra produttore e consumatore (si veda il termine “prosumer”). Le figure degli influencer, in fondo, sono questo. La spontaneità, tuttavia, ha poco a che vedere con la possibilità di modificare le foto, nascondere i difetti e sistemare luci, sfondi e pose. La conseguente provocazione di Carnevale non è affatto gratuita o scontata: nel 2021, ognuno di noi è un artista. Ognuno, sulla propria rete social, si ritaglia il proprio palco e si esibisce davanti a una platea più o meno estesa. Tuttavia, un contesto che favorisce il fagocitare vorace e centellinato dei contenuti, senza dare spazio ad alcuna pausa per pensare o per approfondire, non è alleato della creazione artistica. Non può far altro, anzi, che fomentare l’allontanamento tra le persone e l’instaurazione di standard di vita eccessivamente elevati. Chiunque sui social si promuove nella sua versione migliore e fa vanto degli aspetti più interessanti delle proprie giornate. Ciò può provocare alienazione e profonda insoddisfazione personale. Le conseguenze psicologiche e sociali sono potenzialmente devastanti. Non a caso, le generazioni di giovani contemporanei sono coloro che soffrono maggiormente di disturbi psichici legati ad ansia, sfiducia, attacchi di panico, passività e pessimismo. Ciò invade ogni aspetto della nostra vita, nella sessualità come nell’autorealizzazione e nel rapporto col prossimo.
Siamo quindi condannati a una società di analfabetismo emotivo? La soluzione può risiedere proprio nella riscoperta dell’importanza dell’arte, nel suo intrinseco valore sovversivo. Alessandro Carnevale è fenomenale nei collegamenti tra artisti di epoche e sensibilità diverse, che permettono di individuare un filo conduttore, necessario per non lasciarci andare all’idea che l’arte contemporanea sia un capriccio vanesio o un inciampo nella storia. Da Pollock a Van Gogh, da Andy Warhol a Chiara Ferragni, abbiamo la possibilità di combattere la mortalità, aprendo la mente alla nostra finitezza e alle nostre paranoie. Abbiamo più che mai bisogno di scavare in noi stessi per vedere le nostre contraddizioni, che non sono più rappresentabili da un’idea classica di bellezza. Un’arte lontana da ogni stereotipo, che va approfondita per essere ghermita (e già questa è una piccola rivoluzione, nel mondo superficialmente celere in cui viviamo). Per fare questo è necessario accettare la potenza degli artisti contemporanei a volte tanto criptici, capaci di interpretare una condizione umana che è figlia di due Guerre Mondiali e una perenne circostanza di crisi sociale ed esistenziale, e non più della perfezione ideale dell’uomo vitruviano.
“Da Instagram alla Lattuga” parla a tutti. Muove i fili del tempo, permette di conoscere artisti mai sentiti prima e di commuovere per le storie che hanno portato alla creazione di determinate opere. È cibo per la mente che combatte l’apatia, cibo per potenti. La scrittura entusiasta dell’autore ci permette di entrare in qualcosa che fino ad ora avevamo respinto. Con sufficiente disponibilità ad ascoltare e ad andare oltre le proprie convinzioni, questo libro vi aprirà un nuovo mondo, fino ad ora recluso. Penso che questo sia il complimento più sincero che possa fare al professore.