Chi sono Io e chi sono Loro, i miei due amici scrittori, Rocco Carbone e Pia Pera, che assieme a me fanno una Mente una e trina? Per rispondere a questo interrogativo, il vincitore del Premio Strega, Emanuele Trevi, dedica il suo ultimo racconto autobiografico "Due Vite" (Ed. Neri Pozza, 2020) al suo Doppio al maschile e al suo Triplo al femminile. Da queste vite lette attraverso un caleidoscopio, transluce una sorta di ologramma letterario, per cui una piccola parte di ciò che si ricorda, qualunque essa sia, racchiude sempre il "Tutto", anche ciò che si dimentica. Così, per tratti fortemente impressionisti, viene ricostruito nel testo (sempre sofisticato e molto bello) l'intero trittico di tre vite che si sono mille volte incrociate, sovrapposte, disgiunte e ricongiunte senza mai veramente lasciarsi, nemmeno quando la vita terrena è spirata su un giardino dell'abbondanza o sull'asfalto anonimo di un strada di città come tante. Un corpo, un ricordo assomiglia a un reticolo cristallino, una materia da scolpire attraverso il cesello e lo scalpello di un linguaggio di prim'ordine con cui Trevi elabora i suoi ricordi, incrociando innumerevoli volte la spada del suo stile con quello dell'amico fraterno, indimenticabile. Quel Rocco Carbone che, pur di estrarre la sua linfa urticante dalla lingua scritta, ha lasciato donne amate, cattedre universitarie, dissolto nell'acido dei suoi cattivi umori tutta l'umanità infelice e dolente di questo mondo che gli si è incautamente accostata. Uno scrittore vero, dapprima spietato con se stesso e, poi, preciso come un assassino infallibile nel mettere a punto i suoi romanzi, quegli scritti in cui la passione è estratta come una sostanza chimica fastidiosa.
La prosa di Trevi è ben più che una profilatura appassionata e straordinaria dei caratteri dei due personaggi che tanta parte della sua vita hanno assorbito, come le piante assorbono anidrite carbonica di giorno e ossigeno di notte. Tutto palpita attorno a quel mare magnum di contraddizioni, storture caratteriali, fughe e apparizioni improvvise, divorzi e riconciliazioni che ricordano le strutture degli atomi, immerse in un vuoto pressoché totale. Infatti, la materia, i quark, gli elettroni, i neutroni e i protoni non sono che una infinitesima porzione dello spazio pur microscopico che divide due atomi adiacenti e le stesse particelle tra di loro come le stelle nell'Universo; spazio sidereo in cui si costruisce la loro realtà sempre evanescente, inafferrabile come lo può essere un'onda di probabilità. E, anche qui, conta di più l'assenza o la presenza? Quando si pensa di più a qualcuno? Nei momenti in cui lo si ha, lasciandosi attrarre dal gorgo delle discussioni sempre vorticanti e tempestose, o nei momenti di bonaccia, quando la sua nave corsara è lontana e le vele sono ripiegate su se stesse? Dov'è il timone nei rapporti simbiotici e chi è il timoniere?
Una lingua fusa quella di Trevi, che penetra nel calco dei ricordi, che ricostruisce di Rocco, mattone dopo mattone, il suo edificio psicanalitico dell'ossessione e della depressione che, al contempo, sono ombre dell'anima e soggetti rissosi, incalcolabili e immanenti, con i quali è impossibile sia fare i conti che lasciarli andare. Una vita, la sua, passata a mettere in fuga l'irrazionale, l'imprevedibile perché crea un inaccettabile vuoto interpretativo che agisce come forza pura, incontrollabile. Lui, Rocco, che veniva da un ceto non agiato, manifestava una incontenibile attrazione per le classi sociali superiori, sentendosi sempre un parvenu, un elemosinante dell'importanza dell'Essere quando è riconosciuto, disposto a divenire una piccola luce in una vetrina scintillante. Così come nella vita di Piera è tutto un manifestarsi di scintillii, una pioggia di colori, odori e sapori che sono l'esatto contrario delle paranoie di Rocco Carbone. Un femmineo materico che fa da terreno fertile per mettere su radici, all'interno di un'amicizia uomo-donna che all'attrazione fatale sessuale postpone e antepone se stessa: un discorso, cioè, sull'amarsi diversamente, quando le frasi del conforto giungono come lampi accecanti dentro un cielo nero, rischiarando così la vita terrena. Pia è l'Interprete, il ponte tra una lingua ricchissima, il russo di Puskin, e l'italiano di Dante che rende ancora più innovativo, straordinario e rivoluzionario anche rispetto al grande fiorentino. Ma, Trevi fa un altro capolavoro: costruisce nel testo un linguaggio nel linguaggio all'interno di un altro linguaggio, in una sorta di complessità tre destinata a produrre un effetto sensazionale in chi legge. Uno scrittore che, contemporaneamente, è scritto sotto la spinta di una mano defunta che, a sua volta, scrive autonomamente del mondo circostante.
Come quella sensazione escatologica che si ricava dalla grande e interminabile festa del Nulla, stato eternamente sospeso senza più vita quando muore il ricordo di noi nell'ultima persona che ci ha conosciuti, perché da lì "gli aculei della mancanza non possono più pungere nessuno". E anche il sogno è un prodigio, una fatina trasparente che fa apparire ciò che credevamo scomparso ma che, invece, il sonno recupera come un palombaro che si cala negli abissi della coscienza fuggendo, finalmente, alla veglia. Magia assoluta della scrittura che non solo dà voce e corpo a chi non c'è più ma che, addirittura, da morto ne diviene il timone direzionale, che quella scrittura orienta, ispira e traduce da immanente a presente, puntuale, tanto da poterlo toccare con mano.
Perché, poi, la nostra consistenza nella veglia come nel sonno è frutto di un persistente "lavoro di sottrazione e rinuncia". Come se uno strato della nostra anima fosse in comune con quello di altre specie viventi: un condominio certo oscuro come l'attività di un organo involontario che tende a sfuggire alla coscienza. Un individuo che recuperi alla sua consapevolezza questa forza negatrice, ci dice Trevi, "riconoscendosi in questa via intuitiva in ogni fenomeno della vita cosmica, non considerandosi diverso da un cane randagio, da una venatura del marmo, da un cespuglio di rosmarino ha ottenuto qualcosa di molto simile alla salvezza". Giusto per lui, si direbbe, il Premio Strega!