Roma, Idrovolante Edizioni, 2019
Una ragazza è in coma dopo un incidente stradale e la giustizia non riesce a punire i colpevoli, protetti da amicizie torbide e importanti. Parallelamente, un intreccio di vite, perlopiù dissolute, si agita per le vie e i palazzi di Roma. Questa è, in breve, la storia che viene narrata in Videorama, primo romanzo di Gianfranco Tomei. Una vicenda intricata percorsa da esoterismo, criminalità organizzata e pulsioni incontrollate. L’autore intende raccontare cosa si nasconde sotto la patina lucente dei cosiddetti “salotti buoni”, denunciando senza remore l’anima talora losca della cerchia mondana della Capitale.
L’opera in questione è principalmente una descrizione sprezzante della Città Eterna, da molti così definita in virtù del suo impareggiabile passato. Tuttavia, benché essa abbia attraversato il Tempo mantenendo in larga misura intatto il proprio splendore, dal Secondo Dopoguerra in poi e, soprattutto, con quel pernicioso cambiamento antropologico della sua Popolazione causato dalla Globalizzazione, essa si è andata progressivamente corrompendo. Invero, in Videorama si smascherano le medesime magagne precedentemente messe alla berlina da quel capolavoro “divisivo” della Settima Arte che è La grande bellezza (2013) di Paolo Sorrentino.
Benché vi sia un protagonista (Christian), la trama pullula di personaggi, quasi tutti con un vissuto quanto meno discutibile. La Roma di Videorama è quella di determinati ambienti del Potere, in cui non desta affatto scandalo che politica e malavita vadano a braccetto, oppure che una ricercatrice universitaria, l’avvenente e spregiudicata Veronica, sia più propensa a “procacciarsi” il maschio di turno, piuttosto che concentrarsi sullo studio.
Il romanzo si apre con l’immagine di due cadaveri galleggianti in una piscina di una villa di lusso, dove, scopriremo nei capitoli successivi, vi era stata una festa della “gente che conta”. Del resto, già dalle prime pagine si intuisce chiaramente il taglio noir della narrazione: l’autore non è interessato alla diegesi, bensì a tratteggiare l’indole dei personaggi, anche se questi vengono delineati separatamente, quasi fossero delle monadi all’interno di un grande affresco cupo, saturo di disillusione. Una scrittura solo formalmente realista lascia sovente spazio a suggestioni oniriche che fanno piombare il lettore in un contesto distorto e, talvolta, disturbante.
Come detto, la vicenda si incentra su Christian, un orfano; eppure appartenente alla categoria dei “figli di papà”. Uno, in poche parole, che studia e lavora quasi per hobby. Costui conduce apparentemente una vita intensa. Nondimeno, ogni cosa sembra scivolargli addosso: il suo è uno sguardo puntualmente distaccato e infastidito, epitome di un sentire sostanzialmente indifferente nei confronti del prossimo: “[…] aveva fatto del cinismo la sua bandiera” (25).
Tomei descrive con sarcasmo ritrovi e quartieri che probabilmente conosce di persona: in diverse parti del romanzo si palesa la più classica incarnazione dell’autore nel protagonista. Sia chiaro, non intendiamo così sostenere che Christian sia una sorta di suo alter ego letterario, ma vi è comunque parecchio di lui nel personaggio. Ciononostante, parliamo di un protagonista “parziale”, giacché tra una alternanza di piani narrativi e continui spostamenti nella focalizzazione dell’intreccio, notiamo una reiterata “polifonia”, della quale Christian è semplicemente il filo conduttore.
La Baronessa e suo figlio (il Principe Nero), Veronica sono persone di alta estrazione sociale, benché di aristocratico non posseggano assolutamente nulla. Anzi, sono degli scialbi comprimari di quel “Mondo di Mezzo” di cui parlò Massimo Carminati. Leggendo l’opera, si evince che non pochi di tali ambigui figuri frequentino quei “circoli buoni” sbeffeggiati dal suddetto Sorrentino con la celeberrima tirata di Jep Gambardella alla amica Stefania. In effetti, la insofferenza verso questi soggetti è un altro elemento ricorrente nella narrazione: “Era quello il mondo culturale romano, e se voleva integrarsi doveva capirne i meccanismi, penetrarne il linguaggio […]. Anche se era un linguaggio che più conosceva e più gli metteva disagio e lo faceva penare e lo metteva dell’idea che lui e quell’ambiente fossero due universi distinti e pochissimo comunicanti” (16). Questo va di pari passo con una pervicace stigmatizzazione della immoralità della Capitale: “Ma lui sapeva bene che erano tutte rovine e che nonostante fosse tutto ancora in piedi, in realtà era tutto distrutto, raso al suolo moralmente, come dopo una guerra mondiale” (28); nel segno di un decadimento umano e intellettuale che oltrepassa quello di Roma, investendo la Nazione intera.
Il romanzo del Tomei è calato nella realtà vacua e post-ideologica dei nostri anni, in cui prevalgono disvalori quali un consumismo spinto di matrice statunitense e un “sessualismo” degenerato, conseguenza ultima delle teorie di Sigmund Freud. La sua storia palesa un senso di frustrazione – pienamente comprensibile – per la difficoltà di trovare in sé una spinta individuale alla indipendenza, onde sfuggire alla omologazione imperante, incriminata anni or sono dalla lucida penna di Pier Paolo Pasolini. Viene irriso, ad esempio, il finto “ecumenismo dell’interclassismo postmoderno” (78), idolo fallace della sinistra progressista che, come spiega l’autore, ha smarrito ogni coordinata: “[…] il marxismo lì aveva fallito, e di brutto” (79), svilendosi nella idolatria del profitto e della competizione.
Il linguaggio è semplice, immediato e, in varie occasioni, anche a tratti forte, spesso in riferimento a una presenza non certo circostanziata del sesso. A esser sinceri, è l’immagine della donna tout court che viene mostrata in modo abbastanza negativo, a volte persino provocatoriamente canzonatorio. A tal proposito, segnaliamo la seguente riflessione, decisamente mordace, benché non priva di un malizioso umorismo: “Dammi una donna che non sia confusa, e avrai un uomo” (49). Verrebbe da pensare che la scelta di implementare un lessico in alcuni momenti “pesante” sia stato un espediente per evidenziare lo stato esistenziale di Christian, un giovane uomo totalmente insoddisfatto, il quale lotta inefficacemente contro una condizione depressiva.
In conclusione, Videorama vede Roma come un “teatro del Vizio”. Città sublime solo di facciata, ma decrepita nella sua essenza: “Mentre guidava alle sue spalle gli appariva Roma da lontano, nella sua tenera oscurità, pronta per essere sbranata, marcia com’era, in un sol boccone” (44). Insomma, un crogiolo di una “putrida immobilità” (51), come causticamente sentenzia Tomei. D’altronde, l’aspetto di principale rilevanza del romanzo sta precipuamente nel puntare i riflettori su di una società laida che purtroppo esiste e dalla quale, suggerisce l’autore, è meglio stare alla larga.