Escape at Dannemora
28/01/2019
Quanti film e serie abbiamo visto sulle fughe carcerarie? Tutti ci fanno simpatizzare col fuggiasco, con cui entriamo in ansia mentre scava tunnel negli impianti di aereazione.
Anche i prigionieri Matt e Sweat trovano quella via di fuga, ma questa volta non incrociamo le dita: sono degli assassini, Matt particolarmente lurido, degli approfittatori e tutto attorno a loro è sporco, ambienti e persone. Tutto ciò, si badi bene, però, senza giudizi morali, ma con precisione psicologica e d’ambiente quasi documentale, vedendo il (poco) buono e il (tanto) male di ogni personaggio, cogliendo le sfaccettature e inserendole in un contesto di squallore e desolazione che travalica il puro divertimento spettacolare.
Il detenuto David Sweat (Paul Dano) è il supervisore della sartoria del carcere, ed intrattiene una relazione sessuale con la direttrice della stessa, la frustrata Tilly, moglie di un altro impiegato del carcere. Il detenuto Richard Matt (Benicio del Toro) invece ha l’ hobby della pittura, e usa le proprie capacità pittoriche e affabulatorie per rendersi amico il secondino ed esercitare potere nel proprio braccio. Quando la tresca tra Sweat e Tilly viene scoperta, Matt pensa di sostituirsi a lui ed incantare la donna per farsi aiutare nella fuga dal carcere: ha infatti casualmente scoperto la via di fuga, ma occorrono strumenti per ritagliarsi (letteralmente) quella via…
In buona sostanza, la serie tv diretta da Ben Stiller, tratta da una storia rigorosamente vera (che a noi, non conoscendo la cronaca americana risulta nuova come un film d’azione), spicca per preciso e crudo realismo, senza edulcorare in alcun modo gli aspetti più fisici (dalle rughe e il grasso dei corpi, alla tristezza di atti sessuali consumati in pochi secondi, fino ai bisogni corporali, per non parlare della violenza) ma senza nemmeno pigiare il tasto del disgusto tanto eccessivo da risultare grottesco – come per esempio fanno i Coen nella serie Fargo.
Il risultato è tanto più sbalorditivo se si pensa al suo regista-produttore, che finora ci ha sempre deliziato con commedie che potevano variare i toni dal comico al satirico all’amarognolo, ma di cui non conoscevamo la vena “noir” e l’occhio attento per un’umanità perduta e marginale.
Con ritmo e un uso della cinepresa fluido nei movimenti e spesso molto ravvicinato ai soggetti, la mini serie crea un senso di claustrofobia non solo fisica (parliamo di carcere…) ma anche esistenziale: Tilly, la complice-vittima, che sogna di fuggire dallo squallore e dal freddo, è un personaggio che resta scolpito nella memoria, anche grazie alla magistrale interpretazione di Patricia Arquette. Non da meno sono Paul Dano, Eric Lange (è Lyle Mitchell, il patetico marito cornuto), David Morse (Gene Palmer) e un mito come Benicio del Toro, che Stiller dirige in punta di piedi, giocando sui primi piani e un’interpretazione a sottrarre.
Ottimo.
Elena Aguzzi