Rubini recita "A cuore aperto"

06/03/2011

Passa da Neruda a Prévert, da Pavese alla storia tutta napoletana del mariuolo De Pretore Vincenzo raccontata da Eduardo De Filippo, gioca con le parole di Sanguineti, parla d’amore e divaga, scostandosi dalle Voci del Novecento che fanno da sottotitolo a questo recital “A cuore aperto”. Perché quando si parla d’amore si va ovunque, fino nella camera del delitto di Otello, e qui Rubini dà voce sia a lui che a Desdemona in un pezzo di grande teatro che dà i brividi, con sottofondo di Rachmaninov. Da Shakespeare passa a raccontare la vita di Puskin, facendone il paragone con quella di Leopardi, una avventurosa alla corte zarista, l’altra prigioniera in una stanza immaginando un mondo fatto di nulla, e passa così alle “Operette Morali”  portando in scena un Leopardi più sconosciuto e quasi teatrale. Per chiudere infine col rocambolesco gioco di parole di Giacomo D’Angelo che si divertì a catalogare tutti i soprannomi degli abitanti di Grumo Appula, paese natale di Rubini.
Quello di Sergio Rubini è molto più di un reading, è una confessione letteraria a voce alta, così come a voce alta si è abituato a leggere i classici che più amava, così come a voce alta leggeva suo padre capostazione. “Il filo conduttore è il materiale che ho usato per me stesso, è il mio mondo, un contenitore delle cose che mi sono più care. Probabilmente attraverso questo materiale riesco a raccontarmi. Sono lettore da sempre, mi sono formato sui russi e sui francesi, e, forse perché mi sentivo storto e deforme, nei libri di Dostojevski mi trovavo assolto. Tra i poeti i miei preferiti sono Neruda e Sanguineti, che ho iniziato a leggere quando avevo 18 anni. Col tempo l’ho approfondito, mi sembrava che mettesse alla prova il mestiere d’attore, avrei voluto incontrarlo e recitarlo davanti a lui, ma non c’è stato tempo”.
Così è nato questo spettacolo a due voci, quella di Rubini che procede di poesia in poesia a ruota libera, per associazioni di idee, passando dagli accenti più drammatici a quelli più scanzonati,  e quella della musica di Michele Fazio eseguita dal vivo con pianoforte, batteria e contrabbasso. Un tuffo nella poesia che diventa una vera e propria drammatizzazione, restituendo alla parola tutto il suo vigore. “Il 900 è il Secolo delle immagini, è come se il caos delle immagini avesse tolto spazio alla parola e la gente invece ha bisogno di parole. La poesia continua a sforzarsi di dare un senso a tutto ciò che apparentemente non ne ha.”
Ma perché un ritorno in teatro così particolare, e con soli due giorni di tappa al Teatro Manzoni di Milano? “Ho scelto di dirigermi, ma in uno spettacolo come questo, perché in palcoscenico provo la frustrazione di sentirmi ristretto in uno spazio scenico, mentre un regista teatrale deve avere la forza di ritenere quello spazio infinito e vederlo come il mondo. Così ho cercato qualcosa di più simile al recital, ma volevo partire prima dalla provincia per capire l’effetto, il risultato, volevo mostrarmi a piccole platee controllate. Ne sono rimasto punito perché oggi vorrei fermarmi di più nelle grandi città”. Come spiega il ritorno di altri suoi colleghi dal Cinema al palcoscenico? “Per assurdo, oggi che l’esercizio cinematografico sta attraversando un periodo strafelice, il Cinema è un po’ in crisi. Perché non c’è ricerca, si tende a fare un Cinema facilmente esportabile e poiché la platea cinematografica continua a richiedere la commedia qualcuno si trova spazi alternativi in cui continuare a ricercare. Mi piace pensarla così, che sia dovuto alla voglia di battere strade alternative a quelle che il mercato cinematografico vuole imporre”.

Gabriella Aguzzi