
Corrado D'Elia paga un cospicuo tributo al sardo Niffoi, Premio Campiello 2006 per “La vedova scalza”, e porta in scena un suo testo del 2005. “La leggenda di Redenta Tiria” è pervasa di quel misticismo e di quell'asperità oramai associati alla Sardegna, fissati nell'immaginario collettivo per pagine di Deledda, Fois, Ledda, Agus.
Il romanzo non rispetta l'ordine cronologico degli eventi, ma ha una struttura suddivisa in capitoletti, uno per personaggio, uno per abitante del fantastico Abacastra. Paese inventato, ma verosimilmente collocato nel cuore della Barbagia, Abacrasta è meglio noto nel circondario come «il paese delle cinghie»: molti dei suoi residenti, ad un certo punto della loro esistenza, sentono il richiamo della Voce «Ajò, la tua ora è giunta» e corrono ad impiccarsi. Legano al collo la cinghia e dicono addio alla vita: «nelle tanche di Abacrasta non c’è albero che non sia diventato una croce».
A rompere la monotonia dei suicidi, arriva un giorno Redenta Tiria, un ossimoro vivente, «una femmina cieca, con i capelli lucidi come ali di corvo e i piedi scalzi».
Il nome della protagonista reimpasta elementi di cristianesimo e paganesimo: «Sono la figlia del sole, e sono venuta per portare la luce nel paese delle ombre» si presenta. Insomma, una sorta di divinità femminile, un Cristo sottratto alla tradizione ebraica, e ricontestualizzato.
Se, però, da Redenta a redenzione il salto semantico è breve, non si ha la stessa traslazione dalla visione cattolica a quella niffoiana della santità.
Adelasia, per esempio, resta sola quando mette al mondo un bambino con gravi problemi fisici; tutto perché è venuta meno ad un voto di castità fatto a Santa Lucia per riottenere la vista. Ed è cognizione assodata da tutti gli altri compaesani che i Santi sono vendicativi: segue il consiglio «Solo chi ti ha dato il male te lo può togliere!». Adelasia ricorre ad un anti-voto, quasi un rito magico, e il male svanisce.
A narrare le storie disgraziate, nel romanzo, è un pubblico ufficiale del comune che firma i nulla osta per seppellire i cadaveri. Nello spettacolo di D'Elia, l'affabulatore è lo stesso regista, seduto in un cerchio di pietra, in una dimensione temporale di totale sospensione: a riprova, gli elementi scenici – orologi e foglie secche - pendono dal soffitto, come in un fermo immagine.
Per quanto riguarda il linguaggio, l'attore milanese rispetta la prosa di Niffoi, caratterizzata da una commistione di italiano e sardo, sia dal punto di vista lessicale che sintattico. L'uso del sardo è una scelta voluta e necessaria, come Niffoi ha avuto modo di spiegare, «non si tratta di allontanare quanti non conoscono il mio idioma, ma di dare alle cose il nome che hanno». Allo stesso modo, D'Elia ha espresso il senso della narrazione senza incorrere nel tradimento della traduzione. Almeno queste sono le pregevoli intenzioni del Premio Pirandello 2009. Di fatto, le origini milanesi affievoliscono l'evocazione della terra dei nuraghes.
Sicuramente d'effetto le musiche e i testi di Marisa Sannia, un accompagnamento ragionato, che asseconda e cadenza l'assetto narrativo.
Al Teatro Belli fino al 22 maggio 2011.
Teatro Belli
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