
Ho
sempre desiderato veder rappresentato Shakespeare
così come l’ho visto a Stratford-on-Avon,
con la Royal Shakespeare Company: il King Lear
diretto da Trevor Nunn è uno spettacolo
grandioso, a cinque stelle, grandiosa la messa
in scena, grandioso Sir Ian McKellen nel ruolo
di Lear. Diversissimo da quel Re Lear di Strehler
che mi stregò 33 anni fa e ancora resta
nella mia memoria: è un King Lear sontuoso,
affascinante, cruento, carico di emozioni.
La magia all’interno del Courtyard Theatre
si crea da subito con i movimenti scenici creati
dal solo andirivieni degli attori che avvolge
tutto il grande cerchio teatrale, in costumi che
richiamano un tardo Ottocento, ma d’ambientazione
imprecisa, a sottolineare il ripetersi nel tempo
della tragedia tra padri e figli. Gli uomini al
seguito di Lear fanno baldoria ed imbracciano
fucili, poi scoppia la tempesta conducendo il
vecchio Re sul baratro della follia, il primo
atto si chiude con il Fool (Sylvester McCoy) penzolante
dalla forca, quindi infuria la battaglia sporcando
i volti di sangue e la scena si riempie di cadaveri.
Ian Mc Kellen, che in passato aveva interpretato
la tragedia shakespeariana ma nei ruoli di Edgar
(nel ’74) e di Kent (nel ’90 e giunse
anche a Milano), compie la sua “scalata
dell’Everest” a cui ogni attore shakespeariano
aspira mostrando un Lear gigantesco che è
molti personaggi in uno: un vecchio burbero, capriccioso
e privo di giudizio che si bea solo delle parole
lusingatrici (e qui si porta dietro la sua signorile
ironia), un uomo umiliato che precipita gradualmente
nella follia (urla e agita le grandi mani, sfatto
dalla pioggia, ridicolizzato, lasciando scorrere
tutto il torrente drammatico del delirio), un
vecchio bambino che torna infine tra le braccia
della figlia ripudiata, tentennante e fragile,
e ritrova la ragione solo avendola perduta.
Parallela alla sua la tragedia di Gloster (William
Gaunt), ingannato dal figlio Edmund (Philip Winchester),
che solo nella cecità ritrova l’affetto
autentico di Edgar (Ben Meyjes), il figlio esiliato.
E lo stesso Edgar per ritrovare la sua dignità
si degrada fingendosi folle. Perché King
Lear è la tragedia della vecchiaia, della
famiglia, del perdono, della capacità di
resistere, ma soprattutto della pazzia: “Appena
nati piangiamo per essere venuti su questo gran
teatro di pazzi”.
E quando l’abbraccio travolgente saluta
tutti gli attori non resta che unico desiderio:
rivederlo dall’inizio ancora e ancora.