Cielo stellato (ma veramente pieno di stelle) sullo sfondo. Entrano in scena 10 tra ragazzi e ragazze che rappresentano un miscuglio tra ginnasti e ballerini e quello che appare subito agli occhi è il loro sorriso carismatico e l’allegria, il colore, l’energia che emanano. Segue un passo a due, difficile da dimenticare, dove la plasticità della ragazza, plasticità quasi impossibile da concepire in natura, si lega in una sintesi simbiotica con la forza muscolare del ragazzo, i cui movimenti guidano quelli di lei, che sembra una marionetta con cui l’uomo “gioca”. Questi sono i primi momenti dello spettacolo della compagnia Momix, la più che trentennale compagnia guidata da Moses Pendleton, che ogni anno, al Teatro Olimpico di Roma, ci delizia con un’incantevole rappresentazione di quelli che sono temi sempre attuali (basti pensare a Passion del 1992, o a Bothanica del più vicino 2009). Quest’anno viene proposto “reMIX”, una miscellanea delle coreografie più suggestive, dei momenti più intensi della carriera della compagnia. I ballerini, a volte sembrano più acrobati, a volte più attori in vere e proprie installazioni di arte contemporanea, in cui gli oggetti di scena (palloni, aste lunghe due metri che rendono possibile una “pole dance” all’impronta, strane costruzioni, vere e proprie sculture, che sembra facciano parte di un circo, somiglianti alla struttura del DNA) e soprattutto le luci, queste luci fluo che vanno tanto di moda, rendono l’atmosfera cosmica, al di fuori della realtà – sembra di essere di fronte a veri e propri effetti speciali-. Un mix di coreografie, da alcuni già viste, che però altri vorrebbero non finissero così presto, di pezzi in cui se emerge l’energia degli uomini, allo stesso tempo non ci si può non soffermare sull’inevitabile sensualità delle donne, rappresentate come dee greche (anche grazie al grandiosissimo aiuto dei costumi, favolosi quanto l’aspetto tecnico dell’intero spettacolo), che in alcuni casi volteggiano come farfalle, in altri saltano come grilli. E per ultimo, ma non per questo meno importante, il ruolo della musica, quasi sempre tendente ai ritmi tribali ed etnici che infondono nello spettatore un senso di esotismo, di primitivismo, eccezion fatta per l’ultima coreografia, volutamente ironica, volutamente diversa radicalmente da tutte le precedenti, che si muove sulle note di un Johann Sebastian Bach super allegro nel “Concerto Brandeburghese n. 2”. Insomma, sarebbe stato tutto perfetto, se non fosse spuntato, in un eccezionale momento a metà spettacolo, su un telo al centro della scena, tra le braccia di due ballerini, un “WE LOVE ROMA”, che era poco pertinente al senso dello spettacolo, ma che, ahinoi, ha ovviamente suscitato risa, e ilarità, e applausi.