
“Pinocchio” è un capolavoro della lingua italiana, e, come tutti i capolavori, si presta a mille interpretazioni e letture diverse: la favola per bambini, il pamphlet educativo, il romanzo di formazione, l'apologo satirico, il racconto horror e persino la metafora biblica. La chiave scelta da Antonio Latella, autore e regista della mise en scene in questi giorni al Piccolo Teatro- Teatro Strehler, è senza dubbio discutibile e assai intellettualoide, in bilico tra il “politico” (in senso per fortuna lato) e il semiotico.
Del Pinocchio di Collodi resta la traccia di trama, non certo lo spirito. La drammaturgia parte per la tangente, accumula simboli e strafalcioni e si incarta in una regia che raccoglie tutta la fuffa degli anni 70 esasperando il povero spettatore, indeciso se rattristarsi più per i patetici tentativi di humor o per quelli di filosofare. Gli attori poi, vestiti con mutandoni bianchi sopra i quali indossano di volta in volta vari tocchi che indicano un cambio di personaggio, sono costretti a sfoggiare un'insopportabile recitazione chiassosa, pesante e burattinesca (anche chi non interpreta il burattino!), che si dilunga in urletti starscicati e imbarazzanti pantomime, mentre il ritmo langue e lo spettacolo si trascina per due ore di troppo.
Restano di positivo una scenografia scarna e finto-moderna però suggestiva, con la continua “nevicata” di truccioli di segatura; alcune battute di Collodi che sopravvivono allo scempio perpetrato ai suoi danni; e il programma di sala, molto ricco di contenuti. Nota finale: qualcosa delle bugie di Pinocchio è però rimasto, ed è l'immagine che reclamizza lo spettacolo, la foto di un bambino abbracciato a un pezzo di legno. Un'immagine che fa pensare si tratti di una poetica messa in scena teatrale con e per bambini e ragazzi. Un'immagine che non si trova in alcun modo nel greve spettacolo che ci viene propinato.