La Parte migliore di me

23/11/2017

"In picciol vaso unguento fine". Così recita un antico detto pugliese. Vale anche per il teatro minore, là dove nascono i germi del genio giovane e dell'innovazione dello spettacolo dal vivo, a opera di piccole compagnie e, non di rado, anzi spesso, per la disperata azione di sfondamento di attori-autori-registi (di se stessi, in quest'ultimo caso) monologanti. Così, nel piccolo teatro San Paolo in Via Ostiense a Roma (collocato proprio in una piccola dependance della più famosa Basilica, che nel Medio Evo fu il S. Pietro prima di Michelangelo), Andrea Gambuzza e Ilaria Di Luca hanno dato vita allo spettacolo "La parte migliore di me", duplicato da un libro dal titolo omonimo in libreria da 9 novembre. Ora, c'è da chiedersi: rimane davvero in me una parte.. migliore, quando la vita tende a peggiorarmi in tutti i modi? Dipende dai punti di fuga. In proiezione frontale (quella del matrimonio, dell'attesa del primo figlio..) decisamente no: è già fuggita da tempo. Ma alla distanza è un altro discorso.. Basta la luce delle stelle a nascondere i nostri difetti e il naso lungo alla Pinocchio o alla Cyrano de Bergerac, poeta, sincero amatore e onorato spadaccino? Storia di un povero cristo, un operaio separato con un figlio e perseguitato, in quanto onesto, dalla dea Sfortuna che, come tutti sanno, è senza benda e gode di una vista ottima!

Uno scenario essenziale, in cui una struttura ultraleggera di telai metallici a trama larga costruisce ambienti immaginari (un ingresso, una stanza-soggiorno, un piccolo bagno) di un appartamentino nella periferia sperduta di una qualche grande città. Lì vive, in condizioni abbastanza precarie, un padre separato. Un operaio che si è licenziato per non diventare padroncino e comandare su coloro che, fino al giorno prima, avevano condiviso con lui pausa pranzo, vita e caffè. Un uomo onesto, durissimo e indomito faticatore, ovviamente in nero, perché in primo luogo il suo obiettivo di vita è rispettare a ogni costo il versamento dell'assegno mensile all'ex moglie per il mantenimento dell'unico, adorato figlio maschio. La storia è una (anzi, una moltiplicata per dieci alla sesta!) realtà vera per centinaia di migliaia di padri separati e divorziati, e ha come supporto una vasta documentazione di base che Gambuzza-Di Luca hanno accuratamente tratto e recensito da archivi legali, giudiziari e assistenziali esistenti, completata da interviste ai diretti interessati Nota di costume: in questo Occidente dannato gli uomini hanno sempre la peggio e godono di assai scarse  tutele da parte dei tribunali, laddove il divorzio non sia consensuale e/o siano coinvolti minori.

Lo spettacolo fa riflettere sulle istituzioni (Ilaria Di Luca è molto convincente nella parte di un'assistente sociale tormentata per un errore di troppo, che ha causato una tragedia non voluta), ed entra decisamente con forza nel dramma del padre costretto ai lavori forzati per pagare l'assegno mensile evitando assai faticosamente, nel contempo, le mille trappole affettive, burocratiche, lavorative (chi si assoggetta al nero, come fare l'autista per piccoli trasporti non deve porsi troppe domande!) e, soprattutto, il rancore di una controparte che ha il figlio in ostaggio per vendicarsi di lui. Fondamentali sono i monologhi di Gambuzza, che ricostruiscono con talento magistrale le diverse situazioni, anche violente e scabrose, e la relazione con il figlio: la passeggiata al parco, i giochi assieme, le telefonate. I toni del protagonista, forse, sono sempre un po' sopra le righe intesi a sottolineare la condizione di un giovane uomo tormentato e perennemente agitato, che passa dalle telefonate per organizzare il calcetto comprese le celie relative, a quelle più propriamente di lavoro, con un cellulare che squilla continuamente e inopportunamente durante il colloquio fondamentale con l'assistente sociale, che stenta a contenerne l'aggressività verbale ed emotiva.

Eppure, sarà proprio lei, con la sua famosa "relazione" al dirigente dell'ufficio e, poi, al giudice, a emettere la sentenza in assoluto più tenuta. Ovvero, se confermare l'affido condiviso. Come si sa, debbono esistere le condizioni giuste affinché il padre possa decorosamente ospitare in casa sua il proprio figlio, nei giorni stabiliti per vederlo e stare con lui. Ma, altrettanto fondamentale, è il quadro socio-comportamentale del genitore. E, francamente, l'operaio fa del tutto perché venga adottato un giudizio a lui sfavorevole, mostrandosi sempre agitatissimo sulla scena, sicché la carica emotiva pur intensa rischia di disperdersi, ovvero di essere sottovalutata nei momenti topici. Anche se comunica benissimo l'ansia del soggetto allo spettatore, ma poi lo logora ed estenua con le sue ripetizioni forse un po' troppo accentuate, soprattutto nel colloquio con l'assistente sociale. Da un'innocente, coinvolto malgrado lui in episodi scabrosi, ci si aspetta che, finalmente, conosciuta una brava persona, sensibile come Ilaria, cerchi il massimo di empatia con lei spiegandole, magari con la testa tra le mani, ma dolcemente e delicatamente la semplice, pura verità che lo riguarda, soprattutto nella scoperta del disegno. Più in generale, augurando allo spettacolo il grande successo che merita, non sarebbe male arricchire il cast almeno con un terzo personaggio, per corroborare l'onestà e l'integrità della figura del protagonista anche con qualche gag e sano equivoco per rendere più tragico-comica la situazione.

Maurizio Bonanni