“C’è una poesia di Brecht che dice: Tu non avevi debolezze, io ne avevo una, ho amato. Perché l’amore è spesso una debolezza”. E’ la voce di Giorgio Strehler a dire così, e ci raggiunge con un brivido alla fine di uno spettacolo imponente che Monica Guerritore ha voluto come omaggio al suo Maestro, nella ricorrenza dei 100 anni dalla sua nascita. C’è chi ha avuto la fortuna di assistere, nel 1981, alla messa in scena che Strehler fece di L’anima buona di Sezuan e ne conserva indelebile il ricordo dopo 40 anni (vi tornai tre volte, incantata dalle sue scenografie e dalla sua potenza) e per loro questo spettacolo, in scena al Teatro Manzoni di Milano fino al 17 novembre, giunge come una commossa ondata di nostalgia, c’è chi per ragioni anagrafiche non ha potuto assistervi e per loro è un’occasione regalata perché la Guerritore lo restituisce, come testimonianza storica. E, cin quell’incanto che solo il Teatro sa creare, ne fa rivivere la magia.
La regia di Monica Guerritore, strepitosa interprete sulla scena, ripercorre infatti, con devozione e fedeltà, la regia di Strehler. Restano intatte le luci, abbaglianti nel candore del primo atto, cupe e opprimenti nel secondo, così come l’anima di Shen Te è divisa, o meglio lacerata, in due. Restano intatte le scene, quel palcoscenico girevole dietro un sipario bianco (perché Brecht ci ricorda costantemente che siamo a teatro) su cui scorrono la baracchetta di Shen Te, la festa di nozze mancata, sotto le lanterne serali, la fabbrica inquietante di Shui Ta, il cinico alter ego di Shen Te. Certo non siamo di fronte a un calco, e il ritmo, la recitazione si fanno più snelli e rapidi, perché i tempi sono cambiati. Sono stati tolti i brani musicali, ad eccezione di uno (nel 1981 c’era l’abilità canora di Massimo Ranieri). La Guerritore si ispira a quello spettacolo grandioso ma non lo fotocopia. Quello che resta intatto è lo spirito.
“Come è difficile essere cattivi!” dice, straziata, Shen Te dopo aver vestito i panni di Shui Ta. Perché “l’amore è una debolezza, l’amore costa”. E lei è un’anima candida, l’anima buona la cui esistenza gli Dei sono venuti a cercare in terra. Ma far felici gli altri e far felice se stessa sono due cose inconciliabili. E’ impossibile fare del bene senza essere sfruttati. E quell’anima buona, caritatevole, gentile, rischia di essere fatta a pezzi. L’amore le racconta solo inganni e bugie, la lascia derubata e sola, perché il suo aviatore senza lavoro sogna solo di poter volare e per poter volare non si cura di calpestarla. Così, per difendersi, Shen Te si inventa un cugino cattivo, capace di quella spietatezza che a lei sarebbe impossibile, e trasforma la sua mano in artiglio.
Come già Andrea Jonasson nello spettacolo di Strehler così anche la Guerritore appare leggera nell’abito bianco di Shen Te e ha movenze artificiali e meccaniche nelle vesti nere e maschili di Shui Ta, come a volersi inserire a forza in un corpo che non le appartiene. Stupenda la scena della metamorfosi, l’ombra inquietante e gigantesca in cui si trasforma per difendere dai mali del mondo il figlio che dovrà nascere.
Un cast di sette attori ricopre i molteplici ruoli con toni a volte forzatamente grotteschi, e questa è forse l’unica stonatura. Ma il monologo finale alza il pathos e il distacco brechtiano lascia posto alla commozione. E’ l’urlo di un’anima buona, spezzata dall’impossibilità di essere buoni e felici, che invoca aiuto.