Solo alla fine si alza il velo trasparente che li separa dal pubblico, quando i dodici straordinari attori di Fronte del Porto avanzano per ricevere i meritatissimi applausi. Su quel velo scorrono durante lo spettacolo immagini in movimento, l’acqua putrida del porto durante i rapidi cambi di scena, l’omicidio iniziale, i titoli di coda come al cinema, come è ormai tradizione del regista. Perché, se questa è la seconda trasposizione teatrale da parte di Alessandro Gassmann di un grande classico cinematografico (dopo Qualcuno volò sul nido del cuculo), cinematografica è la sua stupenda regia. Fronte del porto è uno spettacolo intenso ma di cui neppure avverti la durata, potente, suggestivo, imperdibile (è in scena a Milano all’Elfo Puccini fino a domenica 21 novembre) e Gassmann non fa che riconfermarsi come il regista più di talento della nostra odierna scena teatrale. La sua liaison col cinema si avverte in ogni regia, che ne utilizza i mezzi amalgamandoli nell’impianto teatrale. E’ lui stesso (e si regala anche un cameo invisibile dando la voce al giudice nella scena dell’interrogatorio) a firmare le scenografie, uno scenario mutevole alle spalle dei protagonisti, immagini proiettate che li portano di volta in volta sulle banchine del porto, in vicoli notturni, su un terrazzo affacciato su Napoli.
La vicenda è infatti trasferita, senza stridii e senza forzatura alcuna, dall’America degli Anni Cinquanta alla Napoli degli Anni Ottanta, dove la camorra governa sugli operai del porto industriale, che non osano strappare il giogo dominati dalla paura, perché se ’o cardillo canta lo fanno volare di sotto. Una storia di soprusi e omertà, di tensioni e relazioni rabbiose, di riscatti disperati da una vita venduta.
La riscrittura che Enrico Iannello fa della sceneggiatura di Budd Schulberg per il film di Elia Kazan, Oscar nel ’55, ne rispetta il plot ma le dona nuovi colori, sentimenti, umori e suoni, e la parlata della città in cui trasporta la storia. Le musiche sottolineano il melodramma, i personaggi escono più arrabbiati e sanguigni. La carica emotiva che scaturisce dai loro conflitti è violenta, l’emozione è palpabile, grazie anche al lavoro corale di un cast affiatato e perfetto. Citiamo Ernesto Lama, boss spregevole, Antonio D’Avino, nei panni di un prete coraggioso che infervora con le sue parole, Francesca De Nicolais, ferma nella sua rabbia eppure mossa a tenerezza, e naturalmente Daniele Russo che eredita il ruolo di Brando e lo reinventa, offrendo una prova di bravura meravigliosa.
Daniele Russo fa del suo protagonista un pugile impulsivo, impacciato e un po’ tardo, schiacciato dal fallimento di una vita sprecata e dal rimpianto di ciò che avrebbe potuto essere, combattuto tra il senso di colpa e la fedeltà al fratello, incerto sull’orlo della ribellione e in balìa di sentimenti contrastanti. Non ricalca Marlon Brando ma lo omaggia in due dettagli, il giubbotto a riquadri rossi che indossa e la camminata finale lungo la banchina del porto.