Nelle scorse settimane, sul palco si sono succedute due storie crude e di forte impatto emotivo: il paranoico quartetto che si affanna in assurde procedure inquisitorie, sviluppate da Oliver Lansley in “The infant” (produzione ZoeTeatro), e il cannibalismo di guerra narrato da Berry Collins in “The judgment”, monologo affidato a Leonardo Capuano (Produzione Benvenuti srl).
Il terzo titolo in cartellone si concentra sul difficile reinserimento postbellico di un mutilato; non tanto per la menomazione fisica, quanto per lo strascico psicologico che l’eroica ferita di guerra ha causato. “Bollocks!” è il titolo esemplificativo, perché il reduce di guerra ha perso proprio i testicoli. E come si fa in una società sessocentrica, dove virilità è sinonimo di riuscita? Lee Hall se lo è chiesto, lui che già si è occupato di minoranze, di outsiders, come in “Spoonface Steinberg”, monologo di una bimba ebrea autistica malata di cancro, o nel cinematografico “Billy Elliot”, ragazzino costretto dal padre a fare pugilato, ma più saggio del genitore nel capire e coltivare il suo vero talento: il balletto.
In un’epoca in cui le dinamiche relazionali sembrano alla deriva, sempre più rarefatte e liquide, i quattro protagonisti di “Bollocks!” si lasciano trasportare dalla corrente; non importa dove, la seguono. La castrazione non è solo di Peter, reduce di guerra, ma è delle due coppie di amici in scena, entrambe prive di stabilità e orbe di futuro. L’impotenza di Peter è sicuramente quella più visibile e pubblicizzata, ma i feroci dialoghi (tradotti da Letizia Russo, coloriti e venati di turpiloquio giovanile) portano ad un secondo livello di lettura: il lacerante malessere non dipende dalla mancanza di virilità, tant’è che Ian, il maschio della coppia B, per quanto emblema di mascolinità, è insoddisfatto, e con lui la compagna Lisa. Il male di vivere è nell’esistenza liquida che le coppie A e B sono costrette a condurre, monadi incomunicanti, bisognose di omologarsi a certe attitudini comuni (solo) per non sentirsi escluse. E allora ognuno, inappagato, insegue un suo obiettivo, insistendo a viaggiare sul proprio binario morto: Peter la mascolinità, Mary la comprensione, Ian il sesso e Lisa la maternità.
Quattro esclusi sociali per un testo dal messaggio duro, indorato dalle musiche pop inglesi e dalla regia dinamica di Vito Saccinto e Pier Luigi Pasino (poi in scena con Barbara Moselli, Matteo Cremon, Gisella Szaniszlò e Marco Taddei). Costumi e scene sono di Greta Cuneo, che affida sostanzialmente al movimento di una porta la divisione degli spazi, funzionali ai vari passaggi temporali e di scena.
La compagnia si è formata presso il Teatro Stabile di Genova, con il quale lavora e collabora tutt’oggi; giovane, ma non inesperta, offre un tragicomico quadro espressionista di uno spleen collettivo: come in un Munch, si urla (o si vorrebbe farlo) senza sapere cosa e a chi.