Una pastiche di stimoli multisensoriali, una bomba emotiva pronta ad esplodere in sala. Fruitori cardiopatici avvertiti, Madeleine è un'esperienza olistica sospesa tra galleria d'arte, noir ed horror puro. Rispolverata anche la psicanalisi, cara al Novecento, integrata nel DNA del nuovo millennio; uno studio della memoria che i Muta Imago hanno approfondito attraverso una suggestiva trilogia, iniziata con (a+b)³ e proseguita con Lev. Quello pensato dal gruppo romano è un trittico sulla guerra e la separazione: a e b, divisi dal conflitto, trovano i corrispettivi alter ego in Madeleine e Lev, ma se il soldato reagisce e cerca di ricostruire una memoria inevitabilmente persa, la donna preferisce rifugiarsi nell'oblio, gelata dall'assedio del passato.
La riflessione sulla memoria e il tempo condotta dal 2004 dalla compagnia (drammaturgo Riccardo Fazi, regista Claudia Sorace, scenografo Massimo Troncanetti) riporta all’infantile “sapore della madeleine” provato dopo anni da Marcel, ne La recherche proustiana; ma pure riporta alle questioni del doppio e del visionario, condensati da Hitchcock nell'eroina di Vertigo. Il passaggio dal sonno riparatore e placebo all'incubo puro è continuo, sottolineato dal commento musicale ad hoc di Fazi; il vento, i tuoni, i fragori contribuiscono a creare una dimensione onirica delle peggiori, un incubo cui lo spettatore compartecipa, fisicamente, sobbalzando addirittura, per alcuni colpi di scena. E' il ritorno del subconscio, di quei ricordi che si vorrebbero cancellare, nell'illusione di preservare il presente, ma come un orco ribussano alle porte percettive proprio quando si abbassano le difese, cioè di notte.
Questa memoria popolata di ombre, sulla scena, diviene un sapiente gioco di specchi e pannelli, attraverso una modalità operativa incentrata su visioni, trasparenze e proiezioni, che motiva il nome della stessa compagnia, Muta Imago. La prospettiva, allora, si frantuma e, col cambio concitato dei punti di vista, mutano pure i limiti della stessa scena: i fumi che riempiono il palco si (ri)modellano sotto le lampade, che illuminano di scatto figure dalle quali si vorrebbe scappare. I corpi sono intrecciati, sovrapposti, in tensione plastica o in lotta, più passionale nella prima parte, decisamente cannibalistica e orrorifica nella seconda.
Quasi un montaggio di frame dark, per tema ed estetica, un probabile sunto di Lynch, volendo trovare un corrispettivo dei Muta Imago in celluloide: accomunati dall'abbattimento del confine reale/surreale e dalla costante osmosi fra passato e presente. I personaggi dei Muta Imago (performer capaci Glen Blackhall, Chiara Caimmi e Irene Petris) vagano storditi in una maxi ellisse spaziale, cancellati dal mondo effettivo, ma in un'iperbole temporale in cui l'incubo si dilata fino ad inglobare lo spettatore in una spirale di lucubri richiami, visivi e sonori.
Caldamente consigliato a chi desideri una terapia d'urto alla paura della perdita e dell'imponderabile.