
Il calcolo delle probabilità sul reperimento di un'unica e corretta risposta al quesito concernente il senso dell'accostamento al numero “7”-in perfetta progressione- di tre suoi multipli,per fornire di un titolo uno spettacolo teatrale, coinciderebbe con la formulazione di infinite valutazioni numeriche sulle possibilità che si verifichi la risoluzione dell'enigma .
“7,14,21,28”.Cifre, rigorosamente, disposte in un immodificabile ”ipse dixit”...
”To be or not to be ...”questo è il loro problema,evidentemente, di ordine non matematico,infatti citando Buzzati,si tratta di ” un caso clinico” la cui analisi dipende dalla scelta viscerale di un'adeguata prospettiva metodologica: la struttura dello spettacolo scritto ed interpretato da Antonio Rezza,con la partecipazione di Ivan Bellavista, sovverte ogni logica di trama,tempo e spazio; caduta ogni difesa del “critico”,intesa come arma di offesa per confinare il temuto -essendo esso (davvero) diverso-”nuovo”,l'opera chiede, autorevolmente (autoritariamente, a volte), pur sempre, “di grazia”, che la si guardi non con occhi di falsi aristotelici (o oraziani),bensì, alla lettera, ignoranti,appena nati ,privi di memoria emotiva e visiva.
Nudi, ancora lontani dal partire verso una meta ,in beata solitudine nella collettività,così come, vestito soltanto delle sue ossa e pelle,almeno coperto dalla cintola in giù da un pantalone “politicamente corretto”, si presenta in scena Rezza,factotum in un paese allo sbando senza più nome proprio,se non quello generico e caut(elativ)amente forse omertoso di “Uomo” .
Né Maeterlinck, né Fersen ,ma un( simbolo di) individuo qualunque,un semplice “essere animato”in procinto di , razionalmente, percorrere il suo Stationendrama, giacché la scenografia costituisce più che mai l'impalcatura di un'esistenza che fatica a ritenersi ancora umana mediante le sue installazioni illuminate e dunque attivate, progressivamente, quando “agite”.
La locandina dello spettacolo è esplicativa dell'intreccio di strutture appese ad un filo non imparentato con “Finale di partita” di Beckett,che statiche nella gabbia dorata dell'autonomia della pura materia,vivono ossia si dinamizzano e quasi, geneticamente, derivabili dall'intersezione dei “Mobiles” e “Stabiles” di Calder ,come le sculture dell'artista, sono armonizzate in un insieme essenziale «[...] “un universo “nel quale ogni elemento può muoversi ,spostarsi ,oscillare avanti e indietro in un rapporto mutevole con ciascuno degli altri elementi »(tratto dalla prefazione di Alexander S.C. Rower a “Calder” -23 ottobre 2009-14 febbraio 2010,Palazzo delle Esposizioni ).
Come sulla carta, sotto un ideogramma, campeggiano in fila 7,14,21,28,così questi ultimi si concettualizzano diventando invisibili,posti alla base,a terra, di una struttura tridimensionale , traduzione cioè di un segno grafico, di un tratto che moltiplicandosi penetra lo spazio e ne evidenzia, volumetricamente, la quantità occupata dai “corpi” originati.
L'ideogramma si fa struttura solida mobile: in primis dondola nell'aere un'altalena dal cui seggiolino Rezza dà la spinta per librarsi felice come un bimbo e stabilirne (definire ed imporre) velocità ,andamento e, metaforicamente, dare il via allo spettacolo con un esordio felice :”Io sto bene” subito smentito interpretando lo stupore di un pubblico incuriosito dalla reiterazione -al limite del patologico-di un'azione “...da fuori non sembra”...ma dell'escursione tra l'essere e l'apparire si è già fatta garante un'équipe medica.
Il parlante si dissolve (o si rivela essere?) in un uomo dal rapporto tormentato con il figlio infante (che lo sostituisce ,invisibile,nell'attività ludica) sottoposto ad incontri prestabiliti dal tribunale dei minori ,ogni sabato, con il padre ,particolarmente, impegnato proprio in quel giorno...
Amorevole sarebbe se il refrain “Attento a papà” fosse considerato come espressione idiomatica di alcune zone italiche traducibile in “...te lo chiede papà,fallo per papà “ecc...,tuttavia nello specifico si tratta di un consiglio indicando in quel “a papà” proprio la persona da cui difendersi.
L'ira funesta è implacata e risolta, dopo una parentesi di pure urlate emissioni foniche non-sense in libertà - prodotte anche avvolgendo la testa in un velo rosso svolazzante proteso a sinistra da un “braccio “dell'ideogramma solido- nell'uccisione del bambino che malgrado mascherati abusi sessuali non ha ancora lasciato la scena al racconto di altri episodi di sodomia.
”...Stava ancora a respira'”.
La denuncia di atti pedofili è dominante.
Cambi di luce per dispiegare nuovi quadri evidenziano un altro vano dell'impalcatura in cui si esplora, mediante la sua ripetizione semischizofrenica, la liceità ontologica di significante e significato.Cosa vuol dire “tout court”:”È bona l'acqua”succhiando da una cannuccia ?
...Affermazione,interrogazione,interiezione o resa dinnanzi allo strapotere del polisenso contro l'unidimensionalità di regime,l'omologazione massificante che livellando le riflessioni immobilizza il pensiero,vincolando a correre,sorvolare su situazioni e contenuti:soltanto la provocazione in senso generale e giuridico può e deve svegliare il pubblico dal torpore ,dalla pandemica apatia a meravigliarsi ancora del mondo.
In un'intervista realizzata dalla giornalista Laura Detti(Night Italia 2, Homo acheropitus)Antonio Rezza ribadisce l'apertura del suo lavoro a qualsiasi tipo di interpretazione perché dotato di una forma aperta e lo stato precario in cui versano gli spettatori alla ricerca di un senso pacificante che soddisfi l'andata a teatro.
Come in “Fotofinish” e “Bahamut” in“7,14,21,28” «[...] non si racconta più niente ,e chi vede subisce il corpo,il calo di significato ,subisce la velocità.Non riesce più ad agganciarsi a nulla che appartiene alla propria capacità di interpretare. Però lo spettacolo è ritmicamente perfetto ,sembra musica ,tant'è che la gente ride nello stesso modo ossessivo di come rideva e si muoveva in spettacoli che avevano uno straccio di significato . Il nostro percorso ,almeno per me,ora è fuori da qualsiasi significato. [...]Questo modo di lavorare dimostra come il pubblico sia educato male [...]appena si dà un appiglio al pubblico ,il pubblico finisce per essere il carnefice di se stesso . Dopo lo spettacolo il pubblico comunica con te rifacendosi all'unica cosa che ha un significato apparente . Da una parte è la vittoria del ragionamento che ho fatto io […] dall'altra parte è la sconfitta della capacità di perdersi del pubblico . Il pubblico si perde nel momento in cui l'azione è in scena , ma torna ad essere razionale appena lo spettacolo finisce . E per comunicare si appiglia a ciò che nello spettacolo è più riconoscibile ».
Lo smarrimento indotto nel pubblico, visibile, a posteriori, da Rezza in quanto non voluto,bensì vitale alla sua ( sola ) sopravvivenza, rende lo scenario inquietante ,assurdo,paradossale generando anche momenti di suspence ( nella definizione suggestivamente enunciata da Hitchcock) :«[...] Questa non è frustrazione ,né una castrazione, ma un manifesto ,contro il teatro di narrazione che fa riferimento alle stragi con i soldi dello stesso stragista . Questa è la nostra protesta : non si racconta,non raccontiamo . Il teatro di narrazione va spostato dai teatri ai soggiorni , chi lo vuole fare lo faccia nelle camerette proprie ».Si conferma dunque la differenza rispetto ad un'opera precedente intitolata “Pitecus” in cui ancora erano avvertibili la paura della morte,la malattia, la diversità ossia stati d'animo,assenti ,nemmeno convocabili al cospetto di numeri :«[...]Negli spettacoli nuovi non c'è più lo stato d'animo , questa è la superiorità del lavoro di adesso . Il pubblico non può entrare in empatia con uno stato d'animo che riconosce .[...]La gente non può “tramare” lo spettacolo ,non lo può raccontare alle spalle perché non c'è nessuna trama”.
Si può così salire e saltare su di un' enorme figura geometrica solida riproducendo il rumore della marcia a tamburo battente tipica della catena di montaggio delle fabbriche dove, precariamente, lavorano alcuni operai ;parlare di catarro cogliendo, legittimamente, spunto dall'urgenza di schiarirsi la voce parodiando e dissacrando poi Cyrano e il romanticismo del bacio,apostrofo non più rosa bensì ... giallo(!)tra le parole “ti amo”; denunciare il vocione dell ' ”informazione bastarda”e giocare sull'espressione “avere voce-vocione in capitolo”; associare la cioccolata ad una “fase fecale”ormai ,freudianamente, patrimonio dell'umanità.
Non manca la celebrazione di Shakespeare in un teatro di burattini in cui si recita “Otello”: la coppia Otello e Desdemona esplode (come prima di loro accade agli sputi sul pubblico ,privi di direzione e dunque vagante,obliqua manna celeste...); tutto precipita ...,ma l'impossibilità di liberazione è di ragione materiale connessa a pratiche questioni di teatro “ ...è 'sto cazzo di filo che me trattiene”nella zona chiamata, in linguaggio vagamente tecnico(se in tv dominano i serial polizieschi ...”è la moda,bellezza!) “incriminata”.
(La memoria non può eludere la tenerezza dell'episodio pasoliniano “Cosa sono le nuvole?”con Totò, Ninetto Davoli, Laura Betti,Franco e Ciccio e Domenico Modugno inserito in “Capriccio all'italiana”,1967).

Come Pindaro, Rezza, volando con il pensiero trasportato su ali “fatte” dalle sue stesse braccia, giustamente, tende a sottolineare la primaria sensazione di follia ad una simile esperienza che svanisce con l'abitudine...qui ,fortunatamente, lungi dall'essere un vincente meccanismo .
Nell'intervista concessa a Laura Detti ,Rezza afferma infatti :«Ne abbiamo fatti 4-5 di spettacoli con quella struttura (parla di “Pitecus”).Ora non riuscirei neanche volendo a fare un solo pezzo nei buchi. Finisci di attrarti in un meccanismo che già conosci ,non diventa più piacevole ,ti sembra di fare una cosa già fatta .La critica superficiale pensava che con questo meccanismo avremmo potuto fare 20-30 spettacoli ».
Tra i quadri ,senza sfoderare un fine sarcasmo d'autore, è abolito il tempo di percezione altrui, ostentandone la negazione: la punteggiatura netta latita ,l'italiano si pondera meglio con segni matematici ed in ambito letterario la drammaturgia deducibile è “scritta” come in un romanzo di José Saramago e prima ancora pensata come le pagelle di Antonio Pizzuto.
Forse è in agguato la “beffa” di Buñuel in “Un chien andalou” che vede il cane come principale assente? Antonio Rezza dispiega una parziale situazione similare: 7, 14, 21 , 28 non sono numeri,ma regioni di uno spazio metafisico, perfettamente, delimitate l'una dall'altra e dotate di una storia a sé,tanto da coincidere , ontologicamente, con ciascun omonimo abitante.
Nessuno spettatore è in possesso di una cartina politica/fisica inerente alla mappatura del palcoscenico teatrale su cui ,con molta dimestichezza, si “narrano “ le vicende di una serie infinita di cifre che si moltiplicano come nella cornucopia onirica di “Parnassus” diretta da Terry Gilliam.
Dal riso generato dalla partecipazione collettiva ad indovinare di quale numero si parlerà,rigorosamente connesso -perché ne è derivante -al precedente, si transita al più buio trasalimento : nulla significa se non in relazione ad altro che lo evidenzia illuminandolo ,fornendo una ragione di esistere , un corpo ,se pur privo di materia ,giuridicamente valido.
La memoria della prossemica è consegnata ad assi di legno e, nel pericolo che di alcuni numeri, si ricordino vite e miracoli, mentre di altri nemmeno le morti, Rezza aumenta il ritmo della narrazione sospendendolo quando si accinge a nominare una nuova o vecchia cifra poiché tocca al pubblico precederlo e “costruire”.
I voyeurs , protetti dal buio che è convenzione del vedere ( e desiderare in sordina ) consentito fino ad un certo punto vengono “penetrati” e macchiati dal “bianco vigore”(Archiloco) trionfante della metafora , sorpresi a vedere crollare ogni logica ,qualunque appiglio razionale mentre resiste alla scossa tellurica dell'idiozia l'ideogramma mobile.
Si direbbe che, come un colpo di dadi non abolirà l'azzardo,così il vento ed altre intemperie mai distruggeranno quanto, virtualmente, costruito ordinando spazi e “vite private” dei numeri.
Su solide fondamenta si erge il montaggio di arti interdisciplinari condite da feroce ironia ,realismo più dissacrante di ogni ambizione visionaria progettata a tavolino perché il contenuto della forma non appartiene ad un genere prestabilito dalla tradizione teatrale.
Il volto di Rezza scarno ed incoronato da riccioli ribelli è in fondo già “teatrale” non in quanto maschera ,ma particolarmente espressivo a prescindere dal suo impiego. Ricorda,avvolto da foulards rossi come le fiamme infernali,l'iconografia immortalante Dante Alighieri smarrito nella selva oscura.Negli occhi si legge il terrore causato dai numeri che si stanno preparando ad ingigantirsi onde imporsi all'attenzione dell'uditorio ...e ciò avveniva anche nei sogni della contadina Marfa ne “La linea generale “di Ejzenštejn.
Nell'intensità dello spettacolo la reiterazione ossessiva, paradossalmente, impedisce il pur pallido e sempre in agguato germe di noia grazie alla flessibilità spirituale,alla libertà di un corpo che in stato di moto perpetuo ripropone ,sì, lo stesso “esercizio” ,ma con consapevolezza,quindi onorandone la vita e favorendone la dignità, lo varia ossia lo educa ad un autonomo respiro.
Tale modalità di affrontare il mondo è confermata da Rezza:«[...] Perchè io non mi affeziono più alle idee(quando capisci di averne tante smetti di affezionarti)- sono pronto a buttare quello che ho fatto per lasciarmi coinvolgere e giocare su uno spazio che non è quello che avevo ipotizzato. È un gioco perverso il modo in cui lavoriamo e la critica superficiale non riesce a coglierlo ,perché è abituata nel teatro e nel cinema ,ad un ambiente gerarchico e parastatale : c'è sempre la necessità di riconoscere una scenografia più che un'opera a sé e una drammaturgia piuttosto che una scomposizione del corpo e delle membra ».
Pur rammentando alcuni fotogrammi di “Que viva Mexico” ,il maestro, al cinema, nella resa dell'effetto descritto è Pasolini.
Bandendo il perbenismo mantenuto dalle ipocrite avanguardie ,senza vergogna di essere “uomo”,Rezza non nasconde il pene ,non lo offende,non lo dissacra ,bensì dà voce ad un muto imbrigliato nella nostra società dalla sovraesposizione mediatica che ,al contrario,con premura da commedia boccaccesca lo rende “invisibile” pur imponendolo ovunque.
Quando si assiste alla vera stanchezza ,allo sfinimento ,al respiro ansimante dovuto ad uno spettacolo che consuma ,il corpo quale opera d'arte è un cuore pulsante ,sanguinante, coerente nel “dare i numeri”. Impossibilitati nel reperire una spiegazione si può ancora una volta concordare con Blaise Pascal: “Il cuore ha le sue ragioni ,che la ragione non conosce”.