Vincent River

17/01/2010

Trama. Londra. Vincent River è ritrovato cadavere nei bagni dell’abbandonata stazione di Shoreditch, nota per gli incontri fra omosessuali come “il quartiere Sodoma e Gomorra”. La madre Anita, costretta al trasloco dall’ostilità del vicinato, si accorge di essere seguita da un ragazzo. Davey, dopo vari appostamenti, la affronta: ha ritrovato lui il corpo di Vincent e non riesce a capacitarsene. Questo il prologo, comune a varie testate giornalistiche, pretesto narrativo per far partire la pièce. Un dialogo serrato, senza interruzioni, denso di sofferenza e rancore, sviluppa riluttanze e finti perbenismi, palesandoli attraverso l’alcool e ammantandoli di cannabis. Ne risulta un singolare rapporto umano tra due vittime: Anita ha perso un figlio, ma soprattutto l’immagine illusoria che ne aveva, Davey ha perduto l’unico uomo che abbia mai amato.

Appunti di regia. Carlo Emilio Lerici ha scelto uno dei testi più crudi di Ridley, dopo aver portato in scena dello stesso autore, “Mercury Fur”, un’immersione onirica nel più brutale medioevo futuribile, con memoria storia annebbiata e natura vendicativa. Uno spettacolo che ha completamente diviso pubblico e critica, nonché editori.
“Vincent River” è stato tradotto da Fabiana Formica, che si è mantenuta fedele all’originale del 2000, scritto sull'onda del ripetersi di aggressioni omofobe nelle periferie londinesi.

Tre aggettivi per descriverlo. Intimo, come il rapporto che si crea tra pubblico e personaggi. Complice la dimensione non titanica del Teatro Belli, gli spettatori sembrano introiettati nell’anima dei personaggi; con loro ricostruiscono la scena del ritrovamento del cadavere e dell’outing di Davey.
Attuale, come le sofferenze causate dall’ottuso ma, per alcuni, indispensabile rispetto dell’etichetta. La mente va ai pestaggi subìti dagli omosessuali, all’attacco omofobico ai danni della sede di Gay.it ad Ospedaletto o agli episodi di violenza a Roma, lo scorso anno.
Clinico. “Vincent River” è una sorta di terapia di gruppo che descrive la presa di coscienza di due refrattari alla verità, ma di fatto quella di Anita e Davey è una paura universale. È la mobilità di certe linee di confine ad essere messa in scena e, nel processo all’etica, scoppiano i binomi vero/falso e giusto/sbagliato.

 
Scena&retroscena: Le musiche di Francesco Verdinelli sono concentrate in apertura e chiusura, poi lasciano spazio ai dialoghi e al loro potere evocativo, come nella descrizione del ritrovamente del cadavere, con le luci soffuse e un agitato battito cardiaco come tappeto acustico. Giorgio Baldo ha pensato una scenografia tanto minimalista quanto emblematica: il palco è disseminato di scatole mezze aperte, pronte ad essere svuotate, come sono pronte al “coming out” liberatorio i due disgraziati, in reciproco soccorso/affondamento: Anita e Davey.


Lo sapevate che…? Francesca Bianco e Michele Maganza, sulla scena Anita e Davey, sono di fatto madre e figlio. Il regista, Carlo Emilio Lerici, è figlio di Roberto Lerici, drammaturgo, autore anche di poesie e canzoni.  
Philip Ridley è un vero enfant prodige: a sei anni ha fondato la sua prima compagnia e a quattordici ha tenuto una mostra personale. Ta i più controversi e ammirati autori della nuova generazione britannica, Ridley si autodefinisce “uomo rinascimentale dell’era multimediale”, perché cineasta, drammaturgo, pittore e compositore.


La battuta “Lo sai come si capisce che si sta invecchiando? Dalle domande della gente”.

Maria Vittoria Solomita