
Trama. Proponi a sei comici disperati un’allettante tournée in Oriente e indica loro un certo turco Alì, ricco mercante delle Smirne, come potenziale Re Mida. Affida, poi, le maestranze al losco Lasca, un Conte che si associa nella sgangherata impresa di protettore a Nibio, quasi il Gatto e la Volpe ricontestualizzati. Contatta gli attori privatamente assicurando a ciascuno una parte. Li avrai aizzati l’uno contro l’altro, scatenando vendette e smanie di protagonismo. Ognuno sfrutterà i propri mezzi per ingraziarsi il turco ed ottenere l’ingaggio; strada facilitata alle donne, consce del loro potenziale sensuale. La più sfacciata, la fiorentina Lucrezia, strapperà l’agognata parte di primadonna alla veneziana Tognina e alla bolognese Annina. Ma i provini - in costumi settecenteschi – si tramuteranno in una girandola di pretese e perfidie, acuite dalle impennate di egocentrismo del soprano Carluccio, l’attore Pasqualino e il poeta Maccario. L’effetto sortito su Alì non sarà quello sperato, ma il gruppo resterà unito, nonostante tutto, in una nebulosa atmosfera da eterna alba del nuovo giorno.
Appunti di regia. Luca De Fusco riadatta Goldoni e lo ricolloca negli anni Cinquanta, tinteggiandolo di rosso in ogni angolo di copione e scenografia. Se “L’impresario delle Smirne” fu concepito nel Settecento come lucida disamina del teatro che correva verso l’autodistruzione, oggi De Fusco riprende e rafforza l’impietoso intento del commediografo veneto. Perché se il teatro è vita, nel momento in cui i teatranti sono presi dal bieco arrivismo, anche la Vita che si rispecchia sul palco perde di dignità e valore.
E con questo intento, De Fusco sfrutta al meglio il clima libertino e affettato degli anni ‘50. Alterna scene di miseria - la vita debosciata degli attori nella locanda, a scene sfarzose di opulenza promessa e sognata - quella di Alì. La successione delle scene è quasi cinematografica, come le figure dei personaggi, che riportano alla mente un Amarcord felliniano: Annina (Alvia Reale) ricorda Gradisca, il turco (Eros Pagni) potrebbe essere un avventore del Grand Hotel di Rimini, Conte Lasca (Max Malatesta) rievoca lo stesso regista de “La dolce vita”.
Tre aggettivi per descriverlo. Musicale, con il magistrale apporto di Antonio Pofi, premio Eti-Olimpici 2008, tra gli ultimi assistenti del Maestro Rota. Proprio il compositore premio Oscar per la colonna sonora de “Il padrino II” aveva scritto musiche originali per un allestimento de “L’impresario” curato da Visconti. Di Pofi ha miscelato un Rota echeggiante letteratura operistica del primo Settecento (concentrato nella parte dei “provini”, nello spettacolo) ad un Rota cinematografico, quello di “8 e 1/2”, “La strada” e “La dolce vita”. Sulle melodie sono stati inseriti dei testi e, accanto alle arie solistiche, Di Pofi ha sviluppato trii e quartetti vocali. Una scoperta il tiptap e il boogiewoogie di Alvia Reale e Anita Bartolucci e gli slanci classici di Enzo Turrin; dotata di notevole estensione vocale Gaia Aprea (che ha cominciato proprio con il musicale “Chatte” di Arias).
Felliniano. Non solo per le musiche di Rota, che inevitabilmente riportano al suo alter-ego cinematografico, ma per le atmosfere oniriche ricreate. I numeri messi in scena sono sospesi tra avanspettacolo e surreale e, come per Fellini, le forme assumono canoni giunonici: ne è una riprova l’estensione dello stesso spettacolo, che sfora le due ore e trenta. Si sarebbe potuto asciugare questo “Impresario”, ma forse non l’avremmo così facilmente associato a Fellini.
Monocromatico. Maurizio Millenotti declina il rosso in modo quasi maniacale, sia nella scelta dei costumi anni Cinquanta che per quelli settecenteschi, usati durante le selezioni del turco. L’effetto è di ridondanza, si è letteralmente soverchiati dalla tinta che per antonomasia rispecchia il teatro, il rouge. In un musical che parla cinematografese, questa sovrabbondanza cromatica è la firma che autentifica un’identità teatrale viva e forte. Come forti sono le presenze in scena, in alcuni tratti eroiche: Eros Pagni, Alberto Fasoli, Max Malatesta, Paolo Serra, Gaia Aprea, Enzo Turrin, Anita Bartolucci, Gianni Giuliano, Giovanna Mangiù ed Alvia Reale.

Scena&retroscena. Il favoloso e recente (inaugurato lo scorso maggio) sipario di Mimmo Paladino si apre su una scenografia essenziale e metateatrale. Le stanze della locanda sono in fondo camerini: gli attori entrano ed escono seduti su pedane mobili, rimirandosi in specchi inesistenti. Antonio Fiorentino ed Alessandra Panzavolta hanno elaborato una drammaturgia spaziale al massimo funzionale al testo, immaginifico e, ancora una volta, poeticamente felliniano. Un esempio per tutti: l’incontro al porto, in partenza per le Smirne. Gli attori si ritrovano, uno alla volta, spinti sulla scena dal loro ego; la nebbia si infittisce di contro ad una misantropia e ad una competizione che sfumano. Rimaste prive di un padrone da conquistare, le “bestie” placano le loro ire, mentre la nebbia del nuovo giorno li costringe a perdere di vista i sogni turchi.
Lo sapevate che…? Durante una tournée, Eros Pagni si ritrovò in camerino un pianoforte e iniziò ad intonare un motivetto che al regista sembrò molto vicino al tema principale de “Il padrino”. Di fatto, Nino Rota quella musica l’aveva composta per una messa in scena de “L’impresario delle Smirne” firmata da Visconti e, solo in un secondo momento, l’aveva proposta a Coppola. Di qui, l’idea di recuperare la partitura e di far cominciare lo spettacolo con Pagni che canticchia Rota in camerino.
Gianni Giuliano, l’attore che impersona Pasqualino, è anche un bravissimo doppiatore: è la voce, tra gli altri, di Kevin Spacey, Jeremy Irons e, sul piccolo schermo, di Telespalla Bob, de “I Simpson”.
Ancora doppiaggio. Eros Pagni è stato scelto da Kubrick per dare voce al Sergente Istruttore dei Marines in “Full Metal Jacket”, mentre la Walt Disney lo ha voluto per Frollo, ne “Il gobbo di Notre Dame”.
La battuta. «So soprana, sì, so sopranissima!».
Teatro Argentina
Via di Torre Argentina, 52 – Roma
Dal 9 al 21 febbraio 2010