Giancarlo De Cataldo rilegge “I fatti di Fontamara”

03/03/2010

 Già altre volte Michele Placido ha portato in scena “I fatti di Fontamara”, in altri luoghi e con altri scopi. Nelle terre d’Abruzzo ha devoluto il ricavato ai terremotati. A Roma fa rivivere un dramma che, superato l’epicentro sismico, esplode in superficie nelle mafie legate alla ricostruzione. Un lutto burlato e una filantropia interessata che purtroppo si ripetono. E come nei ricorsi storici vichiani, un altro abruzzese perse la famiglia in uno spaventoso terremoto: era il 1915 e ad Avezzano rimase orfano l’autore di “Fontamara”, Ignazio Silone. Un quindicenne cresciuto tra le frodi e gli sciacallaggi perpetrati ai danni dei congiunti di tremila vittime di un disastro ravvivato da chi gestì, allora come oggi, la res publica. Silone maturò una coscienza di classe che gli valse la definizione di “socialista senza partito” e “cristiano senza chiesa”. Perché la Giustizia è apartitica e trasversale e, da sempre, «Non è di questo mondo», come sottolinea rassegnato uno dei “cafoni” dello spettacolo.
 Michele Placido è partito dal più emblematico (ed attuale) testo di Silone, radicato nel Realismo documentaristico degli anni Trenta, e ne ha affidato la voce guida allo scrittore-magistrato Giancarlo De Cataldo. Una voice-off onnisciente e lucida, che scandisce i tempi della narrazione. Se l’idea di Placido è quella «di un teatro povero basato soltanto su parole, gesti e costumi, dando l' impressione che i personaggi raccontino il loro passato quasi attorno a un focolare», al Quarticciolo i dieci giovani attori hanno centrato il bersaglio.
 La messinscena è coreografica, musicale, fisica, con tanto di sudore, grida e vene tese. Un teatro d’artigianato, dove il vernacolo dei cafoni si alterna all’italiano della Legge e della Voce-guida. La scenografia è pressoché inesistente: un guardaroba a vista catapulta lo spettatore in una solleticante dimensione meta-teatrale.

E al pubblico questa sorta di audiolibro in 3D piace. Segue le vicende dei fontamaresi, contadini della Marsica, crocifissi alla monotonia della vita agreste. Il turning point arriva il due giugno di un anno indefinito, quando il Governo toglie la luce elettrica agli abitanti morosi e dà il via ad una serie di soprusi a danno dei cafoni. Le speranze di giustizia sono affidate a Berardo Viola (Giulio Forges Davanzati), che ha altre impellenze: comprare della terra e acquisire, così, quel valore che permette ad un contadino di sposarsi. E allora altri drammi e malcostumi del Belpaese si affacciano sulla scena: la mancanza di lavoro, la burocrazia, l’opportunismo, l’affarismo, la censura e il pestaggio. Berardo morirà in carcere a Roma, lasciando ai compaesani il suo grido di rivolta.
Il grido è raccolto ed espanso da altri nove attori che convincono e commuovono. Molti usciti dall’Accademia d’Arte Drammatica, alcuni già visti al cinema, altri in TV, sono genuinamente fisici, scevri di pose ed eccessi manieristici: Lino Guanciale, Marica Gungui, Roberto Pappalardo, Giulio Forges Davanzati, Riccardo Ricci, Roberta Santucci, Andrea Ricciardi, Eugenia Rofi, Valentina Taddei, Ivan Olivieri. Con loro, per la prima volta sul palco, Giancarlo De Cataldo, magistrato autore, tra gli altri, di quel “Romanzo Criminale” portato nelle sale cinematografiche proprio da Michele Placido. In replica dal 9 al 14 marzo al Teatro India, con Michele Placido dal 2 al 7, sempre all’India, e dal 19 al 21 marzo al Teatro Tor Bella Monaca.

Maria Vittoria Solomita