Una volta, molti mesi fa, fotocopiando, interamente, un libro di contribuiti sulla figura di Pier Paolo Pasolini,composto da ingiallite pagine ballerine - perché abbandonate all'incuria di proprietari temporanei disciplinati dal sistema bibliotecario - lessi un'annotazione apposta da un anonimo fruitore accanto alle consuete indicazioni a proposito della vita dello scrittore,d al tratto netto ed energico .
Categoricamente, si precisava, si ribadiva, con un'aggiunta, a matita, che Pier Paolo Pasolini non era “morto “ad Ostia , bensì era stato, orribilmente, assassinato.
La mia memoria non ha conservato,esattamente, la scelta terminologica, ma ne preserva ancora il senso e la commistione evidente di astio ed ostilità verso quel dato biografico di estrema rilevanza ridotto a mera conclusione di un'esistenza, come se tra morte naturale ed omicidio intercorresse una differenza sorvolabile trattandosi, appunto, di Pa'.
La bibliografia sull'evento può dirsi sterminata tanto da generare un dibattito a sé stante ed un percorso di indagine da cui ripartire riconcependo, interamente, la presenza terrena dell'artista e, se la letteratura scientifica continua ad esprimersi ammettendo almeno il massacro compiuto tra il 1° e il 2 novembre 1975, quanto alla dinamica, alle reali ragioni dell'interruzione così violenta di cotanta “vitalità”, le opinioni, gli interventi gratuiti(urticanti ed indelicati), gli scavi pseudopsicologici rivelatori, al contrario, di un prodotto affiliabile a vile cronaca rosa (ossia, ça va sans dire, alla legge della domanda e dell'offerta dei sentimenti da banco, da marketing), profanano un vago barlume di verità così lontana per volontà di intricate sovrastrutture.
Identica ad un rapporto d' Amore, invece, la relazione che governa l'ammalato di “Pasolini” trascende, “trasumana”; chi sta scrivendo con gli occhi lacrimanti, se ne droga,s ubendo l'afasia da sindrome di Stendhal; cercandolo,dopo averlo incontrato leggendone le poesie, i saggi, i testi teatrali, o contemplando i suoi film e documentari, senza retorica, se ne patisce l'astinenza autoinfliggendosi la pena della reiterazione dell'analisi dell'opera omnia, nella speranza, dal sapore sadiano e vizioso, peccaminoso, del materializzarsi di una “persona”: padre, figlio,amante, mentore spirituale ecc...di cui si è, inesorabilmente, privi.
Pertanto, se all'inizio la risoluzione del delitto Pasolini,s tando alla Legge (vituperata) in nome del popolo italiano, viene affidata alla sentenza di colpevolezza per Pino Pelosi, diciassettenne “ragazzo di vita” all'epoca dei fatti, oggi,dopo il susseguirsi di ritrattazioni, nuove prove, conferme, voci schiamazzanti non in capitolo, l'amaro caso ritorna all'ovile, rientra nell'Arte, si rappresenta a Teatro, suo habitat naturale, si riappropria di un contesto, indiscutibilmente, più civile di un'aula di tribunale.
La tecnica scelta dalla compagnia CKTeatro mettendo in scena dal 23 al 28 febbraio 2010 presso la Sala Artaud del Teatro dell'Orologio in Roma lo spettacolo “Delitto Pasolini, una considerazione inattuale” affonda le sue radici nella narrazione di una “fabula” tragicamente nota offerta nell' “intreccio” di un testo scritto e diretto da Leonardo Ferrari Carissimi e Fabio Morgan, proponendo la teoria avanzata da un pittore di fama internazionale, le cui opere figurano in numerosi musei europei ed americani, che conobbe Pa' nel 1946 collaborando spesso con lui, di nome Giuseppe Zigaina,i nascoltato in Italia.
La sua tesi si presta ad una “fine” da drammatizzare ergo ad una drammaturgia della fine raccontata
dal punto di vista di uno scrittore divenuto tale giacché folgorato dal poeta di Casarsa.
Nella premessa a “Pasolini e il suo nuovo teatro «senza anteprime né prime né repliche »”(scritto da Zigaina)s i legge:«[...] Si è subito parlato di un delitto politico o, in alternativa , di una morte dovuta ad “incaute frequentazioni di ambienti omosessuali” .Qualcuno ha anche ambiguamente parlato di suicidio per delega e anche, fantasiosamente, di un omicidio che per una infinità di dettagli poteva essere stato immaginato da Pasolini stesso per uno dei suoi film. Tutti , comunque , hanno sempre sostenuto- a cominciare dai parenti , dagli eredi e da quelli che dicevano di averlo conosciuto “molto da vicino”- che quella morte violenta era stato solo la tragica interruzione della vita e dell'opera di un grande “poeta civile”. Si è sempre affermato infatti che Pasolini, non solo “amava la vita”, ma che questo suo amore per la vita trovava testimonianza in una infinità di progetti , sia riguardanti il suo futuro lavoro di scrittore , sia la dichiarata volontà di ritirarsi a disegnare nella sua torre di Chia... »
Si tratta di una sintesi corretta di quanto sciorinato troppo spesso anche da chi si è proclamato, ipocritamente, interessato al complesso universo pasoliniano “realizzando”alla lettera una delle tante presaghe affermazioni:
“Non siete mai esistiti , vecchi pecoroni papalini,
ora un po’ esistete perché un po’ esiste Pasolini”.
Il distico a distanza di vari lustri detiene immutata la vena pungente e satirica delle origini, il sapore della profezia amaro se a rivelarla è Pier Paolo Pasolini che in varie occasioni, per sua dichiarazione, si era sentito una Cassandra fino ad ergersi, autonomamente, pur senza il placet dell’autore ad invettiva perenne in vita e post mortem contro chi non è mai esistito se non alla sua ombra.
Parafrasando i versi finali della poesia “Ex voto” di Eugenio Montale, di Pier Paolo Pasolini forse tutto si conosce, tutto si ignora: genesi ed epilogo di ogni sua attività oscillano come un pendolo tra l’immane gioia per il barlume di un’agnizione e lo sgomento stallando nel buio dell’enigma e Zigaina, in quanto voce fuori dal coro, messo a tacere come un visionario, ha sempre sostenuto che :
«[...]quella di Pasolini era una morte sacrificale voluta e organizzata da lui stesso per incrementare di senso la totalità della sua opera . [...] il vero scandalo di quella morte e l'incredulità che essa sollevava ovunque derivavano dalla grande eresia dell'Autore , ossia dalla sua volontà di “morire” per “vivere” nella memoria degli uomini: così come oggi “vivono” Dante , ad esempio, oppure Shakespeare ».
“Così come “il 30 settembre 1955 terminava per sempre la sua carriera in un incidente d'auto l'attore americano James Dean.
L'equivalenza tra i due nomi Pier Paolo Pasolini e James Dean, e in particolar modo tra le loro morti connesse, rispettivamente, ad un'Alfa GT e ad una Porsche 550 Spyder, è esibita in apertura di piéce e poi si converte in significativo Leitmotiv dello spettacolo che infatti propone una scenografia essenziale volta a ricostruire il “set “del delitto, corredato sulla sinistra da muri di lamiera, latta e a destra, dai fari anteriori di un'automobile posta di tre quarti, solo accennata : l'idroscalo di Ostia,a duecento metri dal mare, guidando il pubblico attraverso la voce di un narratore, in palese rottura della quarta parete, alla ricomprensione in chiave mitica , ma non meno veritiera e plausibile, di icona culturale universale e senza tempo, pop , santa e/o blasfema dello scrittore a cui lui stesso vorrebbe assomigliare intraprendendone la medesima professione .
Innanzitutto la cronaca dell'evento(scandito, diluito come le stazioni di una via crucis) o meglio la vulgata (anch'essa contestata da Zigaina) sull'incontro alla Stazione Termini tra Pa' ed uno dei ragazzi di vita -Pino Pelosi,detto la “rana”- a causa dei suoi enormi occhi strabuzzati- estasiato dal gioiello a quattro ruote culminato nella promessa di un lauto regalo ( ventimila lire) in cambio “de 'na bottarella”ossia di «cinque minuti d'amore sordidamente muto di corpi senz'anima», come sostiene il primo attore in scena davanti ad un collega illuminato soltanto in quel momento dando vita all'idea essenziale di teatro secondo la visione di Eduardo De Filippo (un “io” ed un “tu”di fronte al pubblico in sala).
L'altro prima in corretto italiano, poi ripreso e sollecitato dall'aspirante scrittore, in romanesco, interpreta Pelosi che accusa Pa' di provocare i borgatari, di fare scempio della loro miseria , di approfittare dell'ingenuità connaturata , quasi un istinto , una pulsione beata e profana per goderne pagando. La precisazione seguita da una battuta, volontariamente, ripórta: “lo rifaccio” non risponde soltanto al colore di un hic et nunc, bensì include un universo intero, uno”specimen”, comportamenti, segni linguistici e gestuali degni di studi antropologici classificanti quell'individuo marchiato a vita da un'infamante nomea. Nel monologo Pelosi afferma di credere che nessun intellettuale conosca, visceralmente, Pasolini altrimenti, concordando con le tesi di Zigaina, si sarebbe letta la sua morte, non come omicidio, bensì come conclusione programmatica e programmata.
Poiché da tale momento in poi il lavoro sul piano drammaturgico ferma la narrazione rinascendo nella dinamica verbale di un'aula di tribunale, assumendo cioè, più propriamente, la struttura di un'istruttoria terminante nella condanna di Pino Pelosi, occorre entrare in medias res , nell'anelito ad una sola verità ricercata da Zigaina a partire dall'Arte ( letteratura , cinema e il dimenticato anzi sconosciuto teatro) prodotta dallo stesso Pasolini.
La battuta pronunciata dal secondo attore alias Pelosi: «Ma gli intellettuali “Frammento alla morte” lo hanno mai letto? Quando io l'ho letto m'è preso un colpo...» lungi dal suscitare una risata per la comica ammissione di ignoranza e sincero, infantile, puro stupore, accusa con insistenza la perpetuata banalizzazione in ambito analitico ai danni di Pasolini denunciando nell'atmosfera di brivido e pentimento, cecità e sordità rispetto ad un sogno fanatico, fondamentalista, folle e mostruoso più volte esposto e fa pendant con il piglio indignato di Zigaina.
Se la scrittura del copione risulta priva di una definita struttura drammaturgica venendo impoverita, penalizzata dall'immobilità degli attori soltanto parlanti con acconciature ed abiti stile anni '70, assurgono a punti di forza il nitore delle parole impiegate, di cui si gusta l'eloquente sonorità scivolando nell'ipnotica e monotona lettura di alcuni testi di Pasolini effettuata da un attore estremamente a lui somigliante nella sagoma e nel volto che interviene prima di profilo, poi frontalmente sei volte declamando versi da “Frammento alla morte”, “La ballata delle madri” “Orgia” e “Poesie in forma di rosa”.
La sua apparizione così vivida, la voce antica , un po' nasale , monocorde,come rievocando un lontano ricordo,l a fulminea sequenza di luce-buio adatta all'irruzione spaventosa di uno scomodo fantasma evitano proprio“imponendo” un'icona la sua mortificazione invitando ad ascoltare e vedere (lo conferma l'etimologia della parola “teatro”) quanto si pensava di sapere ed aver compreso, perfettamente. La sovraesposizione mediatica fino all'estremo limes della presenza di un defunto che parla al pubblico raffredda la cera che lentamente cola in uno stampo a misura d'uomo: la statua plasmata è una testimonianza severa ed irremovibile (come quella in oro e con sorriso smaliziato, dell'ultimo sogno citato nella pièce ambientato ad Ostia) di una presenza non svanita, ma appartenente per sempre al mondo mediante la negazione di una vita individuale.
In scena dalla chiamata al pubblico iniziale si passa al reading letterario in un pastiche-monstrum parallelo ad un “qualcosa” che assieme all'opera scritto-verbale-filmico-teatrale è stato definito dallo stesso poeta una “melassa pluringuistica”.
Nel suo studiolo, come in un quadro di Carpaccio, Botticelli, Antonello da Messina, Pasolini si esprime, recita la sua litania e il ritmo, le pause, il tempo teatrale consegnano le sue parole all'eternità giacché “più moderno di ogni moderno” in quanto “forza del passato” non può stallare nel presente.
La chiusa dello spettacolo in cui, forse, l'eresia di Zigaina andava dimostrata secondo un procedimento matematico esponendo le ipotesi per giungere alla tesi finale, (l'enigma del romanzo incompiuto “Petrolio” non spicca il volo oltre la citazione) segnalata dalla frontalità di Pasolini che recita “...comincerò pian piano a decompormi”consente di stabilire un'ulteriore analogia tra il poeta di Casarsa ed un'epoca storica, il '600 e l'Arte in esso sviluppatasi nota come Barocco.
Anche il finale della tragedia barocca, infatti depauperandosi dell'intreccio drammatico, tracciava un circolo, definibile tale data la stasi tra incipit ed explicit, in cui accadeva soltanto quanto era già previsto ed atteso in un vorticoso movimento di “girevol ruota” legando, indissolubilmente, la morte alla vita.
Calderon, il celeberrimo poeta spagnolo autore nel 1635 de “La vita è sogno”, prestava il nome per intitolare l'unica tragedia delle sei composte da Pasolini pubblicata per sua decisione in vita, scandalo, a prescindere, giacché del più antico genere drammaturgico se ne era dichiarata senza alcuna resurrezione la categorica morte nel Novecento.