
Strano uomo, Harold Pinter. Inglese sui generis. Di origini ebree, nato da padre sarto in una tra le più povere zone di Londra, ha visto il teatro (anche) come riscatto sociale, dalla miseria e dall'emarginazione. Partiva da luoghi chiusi, all’apparenza protetti, eppure carichi di minaccia; zone d’ombra, della società e del singolo individuo. Pinter illuminava con attenzione chirurgica questi tumori dell’animo, per poi esportali e studiarli con acume in scena, sconvolgendo spettatori e attori. Non è un caso se il testo che lo ha rivelato come drammaturgo, nel 1957, si intitoli “La stanza”. Dello stesso anno è “Il calapranzi”, portato in scena solo tre anni dopo, in una stagione drammaturgica in cui Pinter lavorava l’assurdo e la violenza sottesi alla quotidianità, accentuando fobie e psicosi claustrofobiche.
E la storia di Ben e Gus è la dilatazione di un’attesa, espansa fino all’esplosione finale. Un atto unico dalla trama esile, un pretesto per giocare sulla tensione, accrescerla sino al climax ultimo, un vero colpo, di scena e non solo. La comicità c’è, soprattutto in alcuni serrati scambi di battute, ma Pinter le serve al vetriolo e la comedy si fa black. Ben e Gus restano due improbabili killer in attesa di ordini, in un seminterrato che, come loro, aspetta qualcuno che porti “l’ordine”. L’attesa è rotta dal calapranzi che, sonoramente e ritmicamente, irrompe sulla scena. Dal montacarichi continuano ad arrivare ordinazioni ai due killer, che cercano di soddisfare le richieste, abbracciando una missione totalmente altra dall’originaria. Il non-sense e le nevrosi aumentano, mentre i livori tra Ben e Gus stridono.

La scenografia, in tutto funzionale all’assurdo del Calapranzi, strizza l’occhio a Duchamp e Pistoletto, traboccante caos, con ready-made e pseudo Veneri tra gli stracci, bici sospese nel vuoto, cornici sbilenche e due manichini di plastica in una telefonica bolla comunicativa, due bianche ed asettiche monadi ad incorniciare la scena dell’incomunicabilità. E le barriere si declinano linguisticamente - col dialetto siculo usato da Ben e la balbuzie di Gus, visivamente - con le trovate surreali di Gus che estrae fiori dai mocassini, al pari di un folle Cappellaio Matto carrolliano, e caratterialmente - con la dicotomia ingenuità-docilità vs.scaltrezza-aggressività.
Quella violenza che ha intriso ogni opera del drammaturgo e attore britannico, nel “Calapranzi” trova eco nelle parole dei due cecchini, nei modi di porsi, iracondi e gelidi, nelle notizie lette dai giornali. Sono schegge di turpiloquio e quotidiana follia, che hanno valso a Pinter il Premio Nobel per la Letteratura nel 2005, perché "nelle sue commedie scopre il baratro che sta sotto le chiacchiere di tutti i giorni e spinge ad entrare nelle stanze chiuse dell'oppressione".
Fedele all’intento del drammaturgo inglese la regia: la carneficina domestica è diretta da Pietro De Silva, già valido interprete teatrale e cinematografico (“La nave va” di Felini, “L’ora di religione” di Bellocchio, “Non ti muovere” di Castellitto). De Silva ha sorpreso la platea con continui appelli, non gli ha concesso tregue: sin dal primo minuto, quando Ben e Gus sono entrati in scena sedendosi su due spettatori, abbracciandoli. I due gangster sono rispettivamente Maris Leonetti e Pierpaolo De Mejo (figlio del regista Carlo, nonché nipote di Alida Valli). Convincono, anche se in alcuni punti perdono di smalto ed eccedono in trovate macchiettistiche. Leonetti parodia il mafioso, riportando Pinter a Casa Nostra; De Mejo intenerisce col candore da boy-scout votato all’omicidio. Tutto è eccentrico, carico e surreale. In pratica, tutto è Pinter.