Mr Blonde: “Volevo essere Mr Pink”
05/04/2011
Camicia sgargiante, tatuaggi ovunque, anelli vistosi a forma di ferro di cavallo, occhiali scuri che continua a levare per scoprire due occhi piccoli e penetranti, voce roca: Michael Madsen sembra essere sul set di un film, invece è proprio così, folle, appariscente, istintivo. Ospite del BAFF, il Busto Arsizio Film Festival giunto alla nona edizione e in corso fino al 9 aprile, lo vediamo seduto accanto ad un’altra icona del Cinema, John Savage. E con loro c’è il ricordo immediato di due capolavori assoluti, “Le Jene” e “Il Cacciatore”.
Michael Madsen è e sarà sempre Mr Blonde, con il suo passo danzante mentre si prepara alla tortura. Eppure, a sorpresa, rivela “Io volevo il ruolo di Mr Pink, aveva più dialoghi e volevo essere quello che scappa coi diamanti. Oggi è impossibile immaginare Mr Pink senza il fisico di Steve Buscemi, ma anche se Quentin mi aveva detto che era già stato assegnato ho insistito ugualmente per il provino di Mr Pink. Sono stato l’ultimo ad essere scritturato per il film ed ora sono contento, di avere accettato, altrimenti non sarei qui”
“Cosa provi rivedendo e ricordando Le Jene a distanza di anni?”
“Lo apprezzo molto più adesso. Allora ero molto giovane e ingenuo, non mi piaceva il suono della mia voce, non mi piaceva la mia fisicità, non ne ero soddisfatto. Tutto mi è piaciuto di più con gli anni. Harvey Keitel, che avevo conosciuto sul set di Thelma e Louise e che è rimasto mio amico, è stato anche padrino di mio figlio Max, mi aveva fatto leggere la sceneggiatura. Era l’opera prima di un regista esordiente, un film a bassissimo budget, mi dicevano che era rischioso accettare. Quentin, che aveva lavorato in un noleggio di videocassette, era un’enciclopedia cinematografica vivente. Ricordo la scena del litigio con Chris Penn, che era un caro amico e mi manca tantissimo. Io e Chris condividevamo le stesse idee su come deve essere un duro e ci siamo lasciati andare litigando sul serio, abbiamo rotto oggetti, Quentin rideva tantissimo, al terzo ciak eravamo sudati e senza fiato da quanto avevamo riso e forse è per questo che è riuscita così”
“Non si avvertiva la sensazione di partecipare alla creazione di quello che sarebbe diventato un cult movie?”
“Penso che nessuno di noi all’epoca aveva idea di girare un film di cui si sarebbe parlato vent’anni dopo. Certo c’era Harvey Keitel, chiunque vorrebbe essere Harvey Keitel. Cercavamo di imitare i gangster visti nei film, ma eravamo dei ragazzi e Quentin era il leader, ma forse nessuno si rendeva conto del capolavoro e forse era un bene non sapere quello che stavamo facendo perché eravamo tutti più naturali”.
“Quando poi sei tornato a lavorare con Tarantino e lui era diventato un regista culto era cambiata l’atmosfera o c’era lo stesso feeling?”
“E’ una domanda difficile a cui rispondere. Certo è stato diverso perché ci trovavamo a giocare con giocattoli più grandi, come passare da lego alla play station. Lui era sempre la stessa persona, è come un grande cartoon, molte persone che passano all’improvviso da 0 a 10 cambiano, mentre Tarantino è riuscito a restare uguale. Ma la gente intorno a lui aveva aspettative più grandi, era cresciuta la responsabilità e questo ha influenzato il suo destino”.
“Sono vere le voci di un film sui fratelli Vega, Vic e Vince?”
“E’ nella testa di Quentin, e chissà cosa passa nella testa di Quentin! Forse è solo un’idea nata dopo diversi shot di tequila”
“Chi sono i modelli a cui ti sei maggiormente ispirato?”
“Mio padre faceva il pompiere, lo vedevo portar fuori la gente dagli edifici in fiamme, non ha mai ricevuto medaglie: è stato lui il mio primo modello, la persona che mi ha influenzato di più, anche se all’epoca non me ne rendevo conto. Per il Cinema penso a gente come Robert Mitchum, Kirk Douglas, Lee Marvin, Steve McQueen, Charles Bronson.... Adesso gli attori li metti uno di fianco all’altro e nessuno spicca, non sono come gli attori di quell’epoca. Una volta ho incontrato Robert Mitchum, stava facendo colazione, mi sono seduto al suo tavolo e lui non ha neppure sollevato lo sguardo, poi all’improvviso ha chiesto: ‘cosa vuoi fare della tua vita, ragazzo?’. Io ho detto ‘voglio fare Cinema’ E lui: ‘perché?’. Ed è stato tutto”.
L’imitazione è perfetta. Viene da pensare che lui è tra i pochi ad aver ereditato il carisma dei “duri” di un tempo.
“C’ è stata la grande era del cinema gangster, l’epoca d’oro del western. Come identifichi il Cinema di questi anni?”
“Spero non sia l’epoca del 3D, sarebbe la fine del Cinema. Il 3D intensifica troppo, tutto è fatto per colpire, alla ricerca dell’effetto scenico. Un giorno la gente finirà a guardare i film sugli orologi, con ologrammi di attori. Ai miei inizi, quando registravo, volevo conservare una copia in bianco e nero, perché il bianco e nero rende di più”
“Con grandi attori come Mitchum, di cui parlavi prima...”
“Ricordo che nella sua ultima intervista diceva che quello che aveva fatto non aveva avuto molto senso. E’ assurdo e triste, perché non si rendeva conto di essere stato un grande e di quello che aveva lasciato”
Michael Madsen non è di quegli attori che fuggono verso la televisione. Sulla quale spara.
“Oggi la TV è controllata da poche persone in una torre d’avorio che decidono cosa la gente vuole vedere. Bisogna scendere a compromessi, mettere da parte la propria dignità. Bisogna affrontare un processo così lungo che alla fine sanno di averti preso per le palle. Quando non sei più sulla cresta dell’onda sei in loro pugno. I reality non sono realtà ma sono stronzate, è una sorta di frode perché stanno tutti recitando. Ieri ho visto un po’ di TV italiana e avrei preferito vedermi un porno”.
“Invece hai anche un’attività di scrittore...”
“Ho iniziato a scrivere nei viaggi, in camere d’hotel, sugli aerei: brevi racconti, osservazioni sociali. Non ho mai pensato a me stesso come scrittore. Una volta ero con una ragazza a Santa Fè e stavo per buttare i miei scritti nel camino per riscaldare la stanza, e lei mi ha fermato e ha detto di presentarli invece a un editore. Questa ragazza è poi diventata mia moglie”
“Hai mai pensato di combinare l’attività letteraria con quella cinematografica?”
“Scrivo racconti brevi, mi manca la volontà di applicarmi a scrivere una vera sceneggiatura. Anche se ho avuto l’idea di una storia sul lato più oscuro di me”.
Cosa ricorda invece John Savage di quel film grandioso e toccante che è stato “Il Cacciatore”, inno all'amicizia e alla giovinezza perduta?
“Ricordi stupendi delle persone con cui ho lavorato, ho avuto grandi emozioni con grandi persone. Credevamo che ci fosse qualcosa in quel momento storico che era importante per la nostra generazione e che dovevamo raccontare. Eravamo emozionati, c’era energia, impegno, fiducia, nessuno voleva primeggiare sugli altri. John Cazale all’epoca era già malato e chi sa di dover morire spesso è più vivo degli altri, ci mette più cuore perché è più consapevole del dono della vita. Ho avuto la possibilità di lavorare coi più grandi del Cinema. Quel film è stato un vero dono per me.”
“E il panorama cinematografico di oggi?”
“Ci sono sempre più sfide per trovare lavori originali, ma ho ricevuto anche il dono della persistenza e della pazienza.”
“Sei anche un appassionato di lirica italiana...”
Ride, vorrebbe cantare alla Scala, intona un brano pucciniano.
“Ci vuole tempo, però, per sviluppare la voce. Molti hanno il dono, ma vogliono imparare troppo velocemente”.
“Tornando a Il Cacciatore, provi sempre emozione rivedendolo?”
“La musica mi emoziona ogni volta. Mi sento mancare il respiro come oggi, quando camminando ho rivisto il Duomo di Milano. E’ l’emozione che si prova davanti all’arte”.
Gabriella Aguzzi