Lo abbiamo incontrato nella sua casa romana. Bella famiglia, solare. Sarà per questo che Giorgio è così credibile nel ruolo del papà di Jonathan, amico-nemico della piccola Palù Martini. “Un medico in famiglia” ha superato il 26% di share, domenica scorsa, raccogliendo oltre sei milioni di spettatori. Dopo tredici anni di messa in onda, però, le sceneggiature rivelano una certa deriva dei sentimenti, con famiglie allargate, rapidi colpi di fulmine, simpatie repentine, con il “per sempre” ridimensionato in “finché dura”.
Probabilmente la fiction deve rispecchiare la realtà di oggi, con delle coppie più fragili, le famiglie allargate, con figli provenienti da diversi matrimoni. Il rapporto col pubblico fidelizzato di “Un medico in famiglia” permette agli sceneggiatori anche di dispensar consigli: la fiction, in effetti, affronta problemi quotidiani e offre delle opzioni comportamentali. Ad esempio, Giulio Scarpati, mi faceva notare che il rapporto con la figlia o con la sorella sono dinamiche viste pure nella serie tv. Invece che dare un’immagine della famiglia ideale e positiva, o moralmente corretta e perfetta, questa fiction fotografa la famiglia italiana per come è, con tanto di problemi. Siamo sempre sul piccolo schermo, comunque, per cui la serenità domina; in fondo ogni tensione si distende.
E per quanto riguarda il rapporto tra Marco e Maria?
Maria rientra in casa Martini a tre anni dalla morte del marito guido. Affrontare il discorso di una perdita così grande, avendo dei figli ed essendo giovani, è un argomento che interessa perché lo scenario è possibile.
Per i Martini sei Marco Levi, un giornalista di inchiesta che entra sin da subito in contatto con Maria. Come ti sei preparato per questa parte?
Ho guardato “Report”, per certi aspetti anche “Le iene”. Ho visto “State of play” , di Macdonald, con Russel Crowe e “Tutti gli uomini del Presidente” con Dustin Hoffman e Robert Redford. Di italiano, ho seguito molto la figura di Fabrizio Gatti, che si è più volte finto clandestino per venire internato nel centro di detenzione di Milano, in un omologo centro svizzero e infine, dopo essersi gettato in mare da una rupe di Lampedusa, pure nel CPT dell'isola.
Hai vestito i panni del tenente Corsini nella serie tv “La figlia di Rivombrosa”; Filippo D’Aragona nel film italo-spagnolo “Los Borgias”; Cassio nella rilettura dell’“Otello” di Francesco Giuffrè all’Argot di Roma; un poliziotto nella fiction Rai “Il bene e il male”, ora giornalista per “Un medico in famiglia”. Il personaggio più difficile interpretato fino a questo momento?
Tra i più difficili, probabilmente il poliziotto Francesco Miraglia, interpretato ne “Il bene e nel male”, perché era sempre in balia degli altri, un po’ remissivo, quello che noi attori definiamo un po’ tinca.
E invece quale tipo di personaggio ti piacerebbe fare, perché non hai ancora avuto modo, o un regista col quale collaboreresti volentieri?
Di registi ce ne sarebbero tanti. Sicuramente a teatro Valerio Binasco, per il tipo di lavoro che propone. Al cinema, Sorrentino, per il linguaggio che utilizza. Personaggi che mi solleticano..un cattivo totale o un grande classico, magari l’Amleto, anche se sto invecchiando.
Imminenti progetti?
Ho appena portato in scena, qui a Roma, “Il potere delle parole”, un’opera scritta e interpretata con la mia compagna, Simonetta Solder. È un recital con pezzi teatrali in cui la parola è protagonista. Inoltre, con gli attori della Horovitz-Paciotti, sarò ad Assisi per “Suite Horovitz”, sei storie che si intrecciano in un hotel. La particolarità di questo spettacolo, scritto da uno dei più rispettati drammaturghi americani sta nell’ambientazione: il testo è messo in scena proprio in un albergo. Il pubblico, quindi, si sposta da una stanza all’altra, assistendo alle diverse scene, con un testo quasi cinematografico e un approccio voyeuristico.
E cosa ne pensi della radio?
Ho preso parte a dei radiodrammi per Radio Rai. Credo sia una delle cose più divertenti che si possano pensare, perché non hai il problema fisico, puoi caricare sulla voce, non hai il limite del sinc e del doppiaggio; sei completamente svincolato dall’immagine. Mi piacerebbe fare ancora radio, sì.
Perché recitare, allora? Qualcuno ti ha spinto verso questa professione, o frenato?
È stato tutto casuale, anche se poi, ripensandoci, forse casuale non lo è stato affatto. Sin da piccolo mi divertivo a fare imitazioni e mi piaceva entrare in un personaggio, ci credevo molto. Ad una certa età, per caso, a Londra, sono stato rapito da un lavoro a teatro. Sono tornato in Italia e ho cercato di continuare a divertirmi, indossando i panni di un altro,vivendo una storia non mia. Non pensavo potesse diventare una professione, e invece.
Sei stato a Londra per un po’, hai detto. Mi offri l’assist per parlare di fughe di cervelli. Credi che andare all’Estero sia un investimento - per poi tornare e riutilizzare quanto appreso fuori -, o una vera fuga?
Dipende da come affronta lo spostamento. Sicuramente fa bene. Mi sembra che in generale i ragazzi italiani, a prescindere dalla generazione di appartenenza, siano un po’ troppo coccolati rispetto ai coetanei di altri Paesi. Ho avuto la fortuna di vivere per qualche mese a Olanda, ma soprattutto l’esperienza a Londra. Passare da un paesino a città enormi, come Londra, lontane dalla tua personale rete di protezione, non può che insegnarti a vivere. Spesso consiglio a ragazzi giovani di partire; tanto si può sempre tornare indietro, e comunque arricchiti.