At the end of the day: quando il terrore si fa angoscia

21/07/2011

E’ folgorante l’esordio su grande schermo di Cosimo Alemà, che conosciamo come regista di videoclip dei principali protagonisti della musica italiana. “At the end of the day” inizia con una partita di Soft-Air tra amici in una boscaglia in un’accecante giornata estiva, che presto si trasforma in una spietata caccia all’uomo, perché l’orrore, reale, è là nei boschi, e li aspetta in agguato. I presupposti sembrano essere quelli del più comune degli slasher movie, ma il film di Alemà non ha nulla dello slasher movie e non ha nulla di comune. E’ un thriller agghiacciante (vi sono momenti in cui la tensione soffoca letteralmente), violentissimo, anche se la violenza e l’orrore non sono mai rappresentati visivamente, ma avvertiti nelle emozioni che lo spettatore prova insieme ai protagonisti, nei volti di chi assiste, impotente, alla morte di un amico, nella lotta disperata alla sopravvivenza, nello stupore incredulo del primo sparo che li proietta in una dimensione da incubo.
Per definirlo con le parole dello stesso regista “E’ un ibrido, ha la trama narrativa di un horror ma senza averne gli standard del linguaggio cinematografico, girato invece come un film indipendente. La sfida era proprio quella, creare più angoscia che paura”.

“Come è nata l’idea?”
“E’ nata quando ho scoperto il Soft-Air. Trovavo interessante la metafora di gente super attrezzata al combattimento che si trova in balia di violenti qualunque ma muniti di armi vere. Mentre lo scrivevamo ho fatto ricerca e ho scoperto che nei Balcani si sono verificati episodi simili, in cui ex soldati e cacciatori si sono divertiti a uccidere. Così l’idea originale ha finito con l’ispirarsi anche ad avvenimenti reali. E poi ero partito con l’idea di realizzare un thriller alla luce del sole, ambientato di giorno. I film di questo genere che amo maggiormente, come Un tranquillo weekend di paura e Non aprite quella porta, sono proprio ambientati sotto il sole”
“La scelta di ambientarlo nei boschi è nata subito? I boschi sono uno dei luoghi del terrore per eccellenza...”
“I boschi sono un non luogo, un posto disabitato senza riferimenti spazio temporali. Anche se è stato girato nei dintorni di Roma non volevamo che vi fossero connotazioni geografiche di alcun tipo”
“Allo stesso modo è interessante che anche i nemici che incontrano non hanno un background preciso, non si sa perché agiscono così. Si può solo immaginare che siano degli ex militari che vogliono vivere ancora in tempo di guerra...”
“Forse è così infatti, almeno per il più anziano di loro, vi sono dettagli che lo lasciano intuire. Forse sono ex guardie carcerarie riciclate nella forestale e forse è la prima volta che si spingono così a fondo nel gioco sadico della caccia all’uomo...”
“Il Soft Air rimane come punto di partenza. E’ bello come spiazzi lo spettatore raccontando poi una storia di sopravvivenza e come il terrore nasca soprattutto dall’identificazione”
“Ho voluto che la storia prendesse d’improvviso una nuova tangente, anche se con la troupe ci siamo preparati allenandoci tra noi. Diventa un chiedersi cosa fai di fronte alla morte, e ogni personaggio reagisce a suo modo, in questo inesorabile meccanismo alla dieci piccoli indiani. Ho voluto che tutto fosse il più realistico possibile, provandomi a immaginare cosa accadrebbe in quella particolare situazione. Non accadono mai cose improbabili, che facendo abbassare la credibilità fanno calare anche la tensione, ed è questo che ci fa identificare con i personaggi”

“Quali sono i tuoi modelli cinematografici?”
“Come ho già detto il film a cui mi sono maggiormente ispirato è Un tranquillo weekend di paura. Ma amo molto Polanski, Hitchcock, Spielberg, registi che realizzano film di genere con atmosfere”.

“Come hai scelto il cast?”
“Volevamo un film che uscisse dai confini nazionali, quindi girato in inglese con attori di madrelingua, ma con un’identità europea e non americana, evitando i cliché, quindi ho cercato gli attori a Londra. E così è uscito un cast misto: la protagonista, Stephanie Chapman-Baker, è canadese, vi sono inglesi, uno scozzese, Monica Mirga è polacca...”
“Che pubblico ti aspetti principalmente ora che il film è in uscita nelle sale?”
“Vi sono state proiezioni a festival come quello di Courmayeur in cui è piaciuto anche a coppie di sessantenni. Per assurdo, anche se il target è giovane, rischia di piacere meno ai giovani, perché tradisce le loro aspettative e la sua anima di genere”.
Invece è proprio questo il suo segreto. “At the end of the day” è un film dall’intelaiatura horror semplicissima che si rivela un film d’autore attraverso la violenza autentica delle sue emozioni.

Gabriella Aguzzi