“Papā Vittorio, padre del Neorealismo”: incontro con Manuel De Sica

05/12/2014

E' scomparso Manuel De Sica. Per ricordarlo riproponiamo l'intervista che ci aveva rilasciato nel 2011 tratteggiando un ritratto del padre Vittorio

Come esordì Vittorio De Sica in teatro e in cinema negli Anni Venti del secolo scorso?
Lui esordì con la compagnia di teatro di Tatiana Pavlova in piccole parti: questa compagnia rappresentò il suo vero e proprio esordio artistico teatrale, e di quel periodo ricordava gli insegnamenti della Pavlova che per lui furono fondamentali per il comportamento dell’attore in palcoscenico.
Come proseguì la carriera teatrale di De Sica negli anni Trenta e Quaranta?
Successivamente alla Pavlova lui entrò in compagnia con quella che diventò la sua prima moglie, Giuditta Rissone, che recitava insieme a Sergio Tofano e a Luigi Almirante. Lì cominciò a coprire ruoli di primo attore giovane e brillante, ma in realtà lui impersonava poi sempre personaggi un po’ anziani: gli piaceva sempre truccarsi da vecchio, anche perché non si vedeva un bell’uomo, essendo molto magro e scavato. Quando la compagnia Rissone-Tofano-De Sica-Almirante smise di fare spettacoli di certi autori teatrali e cominciarono a fare la rivista Za-Bum per il regista Mario Mattoli, fu notato da Mario Camerini, che andò una sera a vederlo a teatro mentre recitava in duetto con Umberto Melnati. Camerini vedendolo capì che mio padre recitava la parte dello snob che piaceva tanto al pubblico ma che a lui non piaceva, e individuò in lui l’attore tipicamente borghese per il ruolo realisticamente borghese - cosa che poi accadde affidandogli l’interpretazione di Gli uomini, che mascalzoni! del ’32.

Appunto come attore cinematografico De Sica si affermò col sonoro nelle commedie dei “telefoni bianchi” di Camerini: come fu il rapporto tra i due?
Il rapporto fu bellissimo: per mio padre fu illuminatorio, perché lo portò a considerare l’autenticità della recitazione, il bisogno di recitare in autentici personaggi. Venne proprio da Camerini l’input nei confronti di mio padre di impersonare ruoli semplici, modesti e che calzassero una certa realtà, e di questo se n’è ricordato sicuramente quando fu il turno del neorealismo. Io ho lavorato con Camerini in un remake di Crimen per il quale composi la colonna sonora e parlai con lui, che mi raccontò di avere messo dell’ovatta in bocca a mio padre quando gli fece il provino per Gli uomini, che mascalzoni! perché era talmente magro che le guance s’incavavano troppo. Ebbi modo di conoscere Camerini, ed era effettivamente una persona risoluta, temperamentosa e poco incline alla retorica.

Dopo che De Sica divenne un divo popolare negli anni Trenta, come avvenne il suo passaggio alla regia?
Il suo passaggio alla regia avvenne casualmente, perché il suo primo film fu Rose scarlatte, una commedia di Aldo De Benedetti che si era fatta anche in teatro. I primi film di regia - Rose scarlatte come il successivo Maddalena, zero in condotta - sono film che rispecchiano un manierismo salottiero: già in Maddalena, zero in condotta c’è però una maggiore risoluzione di toni da parte del copione, con un ottima Carla Del Poggio al suo debutto cinematografico. Già con Teresa Venerdì ci fu l’apporto di Cesare Zavattini in sceneggiatura, anche se non accreditato nei titoli di testa, ma è proprio nel ’43, quando realizza I bambini ci guardano, che finalmente i germi del neorealismo cominciano a sbocciare, perché I bambini ci guardano è un film duro e introspettivo che si rivolge ad una media e piccola borghesia e non ad un proletariato come poi avverrà col neorealismo.

Sciuscià (1946), Ladri di biciclette (1948), entrambi premiati con l'Oscar come migliore film straniero, Miracolo a Milano (1950) e Umberto D. (1952): come nacque la tetralogia del “processo alla nazione” e il rapporto con Cesare Zavattini?
Nacque proprio con Sciuscià, perché l’idea di mio padre di pedinare dei veri lustrascarpe per le strade di Roma e poi scriverci sopra un soggetto  - e di conseguenza un film - fu la prima grande esperienza neorealista, appunto perché si avvaleva di attori non professionisti, se non in parti di contorno, come Emilio Cigoli che era stato già protagonista de I bambini ci guardano e che in questo film fa il direttore del carcere. Dopodiché c’è Ladri di biciclette, che senza dubbio è opera del sommo Zavattini, anche se lui per tutta la vita ha dovuto sopportare il peso di altri sei nomi sotto il suo nei titoli di testa: in realtà mio padre si circondava di intellettuali quando preparava un film per cercare elementi a destra e a sinistra per la sceneggiatura, e, nel momento in cui Zavattini scriveva tutto, lui non sapeva cancellare questa gente dai crediti del film, e allora metteva tutti in carico un'altra volta, ma in realtà è stato Zavattini il grande co-autore dei film migliori di mio padre.

Coi film che seguirono, la critica spesso accusò De Sica di essere giunto ad evidenti compromessi col mercato e di aver standardizzato il suo lavoro, nonostante Ieri, oggi, domani (1963) e Il giardino dei Finzi-Contini (1970) ottennero altri due Oscar per il migliore film straniero: Lei che ne pensa in merito?
Prendere un Oscar per il film straniero non significa necessariamente aver fatto un film d’arte: mi riferisco a Ieri, oggi, domani che è un film di artigianato. Dopo che realizzò Il tetto - che andò malissimo e si può considerare l’ultimo dei film neorealisti - , mio padre considerava già La ciociara un rientro alla regia di natura artigianale e non artistico: lo fece per far prendere un Oscar alla Loren. Quindi tanto più Ieri, oggi, domani segna l’ingresso di mio padre nel momento del boom economico in un cinema “all’italiana” che non sempre ha dato dei risultati artisticamente molto validi. Per quanto riguarda Il giardino dei Finzi-Contini la cosa cambia, perché lì fu un rientro di fiamma dovuto alla passione di mio padre per la tragedia, e quindi sotto il segno dell’Olocausto s’ispirò a tal punto da fare un capolavoro che possiamo considerare il colpo di coda finale della carriera di un grande artista.

Cosa Le manca oggi di Vittorio De Sica come padre e come artista?
Molto: mi manca lui come uomo, padre ed amico, e credo che manchi al cinema italiano, che in questo momento sta attraversando un periodo in cui abbiamo degli autori individualisti molto precisi che si possono chiamare Moretti, Garrone, Sorrentino e Crialese, però non c’è più l’idea del movimento intellettuale - cosa che allora accadde per tutti coloro che ricostruirono un Italia distrutta e si dedicarono coralmente a ripristinare la penisola italiana. Io ho riacquistato l’attenzione di mio padre lavorando per lui negli ultimi anni della sua vita - dal ’68 al ’74 - agli ultimi suoi sei film come compositore, e in questo modo abbiamo riacquisito un dialogo fra noi che non c’era mai stato, o che comunque era stato tradito dall’età - perché comunque c’era una grande differenza di età tra noi bambini o ragazzi e nostro padre - e poi anche considerando che lui non era un genitore ortodosso: lo era alla maniera sua, come può esserlo un artista.

Alessandro Ticozzi