L’Occidente Solitario di Nigro e Santamaria

05/02/2013

Uno spettacolo forte e crudo quello in scena al Tieffe Teatro Menotti, inquietante, uno squarcio su un crogiolo di conflittualità famigliari che non lascia scampo, pessimista, desolato, senza riscatto, eppure falciato da lampi di un’ironia cattiva che lo immerge ancora più nel nero. L’autore infatti è Martin McDonagh, il regista di In Bruges e 7 Psicopatici, che della commedia nera e del cinismo feroce è maestro. Lo spettacolo è Occidente Solitario, di cui parliamo più diffusamente nella nostra Recensione. Gli interpreti sono Claudio Santamaria e Filippo Negri nel ruolo di due fratelli che solo un reciproco odio tiene uniti (lode agli attori averli resi così sgradevoli e abbietti, senza alcun tentativo di dare loro simpatia), con Massimo De Santis, nel ruolo di un prete alcolizzato che vive la continua frustrazione di non riuscire a entrare nei cuori di queste persone, e Azzurra Antonacci, la Ragazzina che contrabbanda whisky e vive un desiderio impossibile. Abbiamo incontrato gli attori alla Libreria Mondadori di Piazza Duomo e abbiamo chiesto loro cosa in questo testo li ha colpiti con maggior forza.
“La conflittualità – dice Santamaria – L’opera di McDonagh mostra la grettezza umana, l’avidità, la parte più bieca di queste due persone che litigano per un pacchetto di patatine, un mondo devastato in cui gli oggetti sono più importanti delle persone. Nell’interpretarli devi lasciarti andare ad una parte animale”
Non c’è speranza. Sono due fratelli che possono solo stare insieme, un’alchimia di autismo e crudeltà, è una casa di mostri e funziona così. E dopo essersi fatti confessioni innominabili vanno a bere al solito pub. Sono condannati a stare insieme sempre col rischio di ammazzarsi l’un l’altro. La bellezza del testo è in questa tensione. McDonagh li descrive in modo crudo, non c’è il tentativo di farli sembrare un po’ più umani” dice Filippo Nigro e aggiunge “Mi era indifferente quale interpretare dei due perché in fondo sono intercambiabili. Sono entrambi vittime e carnefici di loro stessi. Coleman è un vulcano, un folle, pronto ad esplodere nella violenza. Valene è più meschino, ingenuo, tardo. Probabilmente non hanno mai avuto una donna e il prete è un po’ il fratello maggiore, il padre che in fondo non hanno mai avuto”.
Dopo il monologo di Koltès, Claudio Santamaria è passato a questa pièce che ha luogo nella miseria di un’Irlanda crudele. Un confronto tra i due autori che ha portato in palcoscenico?
“Koltès ha un lato poetico ed evocatorio molto forte, i suoi contorni non sono definiti e pertanto lascia spazio alla creatività. Anche quell’opera era cinica e cattiva, ma lasciava un barlume di speranza, si poteva intravvedere una luce in fondo al tunnel. McDonagh invece presenta questo Occidente fatto di solitudine e chiusure. I due protagonisti sono come due topi in gabbia. Scrive in maniera cinica, chirurgica, perfino ironica. In Koltès il personaggio era un eroe tragico, qui la storia è portata avanti da due persone schifose, due personaggi grezzi che esprimono i loro sentimenti solo attraverso il continuo scontro e sanno amarsi solo attraverso l’odio”.

Gabriella Aguzzi