Nicolas Winding Refn e l'arte della violenza

29/05/2013

Si è svolto a Roma l’incontro con il regista danese Nicolas Winding Refn, il quale ha presentato il suo ultimo film “Solo Dio perdona”. Accolto a Cannes con reazioni contrastanti, il film uscirà nelle sale il 30 maggio, distribuito dalla”01”.


Nel suo film ci sono moltissimi richiami al cinema d’azione di serie B. In primis il titolo, che a noi spettatori italiani ricorda “Dio perdona, io no”. E’ un riferimento intenzionale?

Il cinema italiano mi piace molto, e amo moltissimo gli spaghetti western. Non potendo andare in Spagna a girarne uno, ho deciso di andare a Bangkok e fare qualcosa che li richiamasse almeno nel titolo. Quello che mi piace degli spaghetti western è che, a differenza dei western americani, presentano una realtà estremizzata, surreale. Al contempo hanno un sottotesto psicologico maggiore di quanto non abbiano i classici western americani.

Ritiene che il suo ultimo film assomigli a questa sua ultima definizione o al western americano, anche se non è un western?

Diciamo che questo film è molto più “italiano” di quanto non sia americano.

Lei ha dichiarato: “Ho sempre pensato che avrei realizzato film sulle donne, e invece ho finito per fare film su uomini violenti.” Come mai?

Credo che sia la donna dentro di me. Non mi piacciono gli uomini, non mi piace giocare a poker, non bevo birra, non pratico sport, non faccio niente di tutto questo perché non mi piace nulla di tutto questo. Amo le donne, mi piacciono le donne e prima o poi farò un film su di loro. Ma in realtà quello che ho realizzato finora sono film che parlano di uomini che hanno dei comportamenti violenti. Non so rispondere a questa domanda, non so il perché. Forse perché sono un uomo.

Lo spaghetti western attingeva al cinema di Kurosawa. Mi sembra che anche nel suo film ci siano riferimenti a Kurosawa…

A me piacciono tutti i registi, tutto il cinema. Noi siamo legati a quello che ci ha nutrito, che ci ha fatto crescere e c’è sempre un canale che ci riporta a quella che è stata la nostra fonte di ispirazione. Mi piacciono Akira Kurosawa e Takashi Miike, mi piace tutto il cinema asiatico perché è un qualcosa che avverto come alieno, essendo io culturalmente estraneo a questo tipo di cinema. Per me è come volare e viaggiare nello spazio. Amo molto anche i registi moderni come Park Chan-wook, il problema è che non riesco a ricordarmi i titoli dei film coreani, cinesi o giapponesi. Un film che mi è piaciuto molto è il western thailandese “Le lacrime della tigre nera” (di Wisit Sartsanatieng) .

Dopo il grande successo di “Drive”, ha fatto un film abbastanza particolare…

Sono stato molto fortunato perché ho sempre potuto godere di una totale libertà creativa nel fare i film. E’ una delle ragioni per le quali, anche quando sono stato vicino a chiudere un accordo con un grosso Studio, mi sono sempre tirato indietro. In cambio dei soldi devi rinunciare alla libertà creativa, e finora ho ritenuto che non ne valesse la pena. Tante persone cercano di influenzarti, e mantenere la libertà creativa è come andare in guerra.

Che influenza ha avuto su di lei Jodorowsky, a cui ha dedicato il film?

Credo che Jodorowsky abbia influenzato il cinema molto più di quanto la gente non sappia, un po’ come Kenneth Anger. Negli anni ‘90, quando questi film si potevano vedere solo in VHS, Jodorowsky era una specie di mito, una leggenda. I suoi film non erano in circolazione e bisognava trovare qualcuno che ne avesse una copia. Questo per me era una specie di sogno, un cinema su cui fantasticavo e che andava contro le convenzioni, addirittura contro le leggi della cinematografia. Alla fine sono riuscito a vedere “El Topo”, tramite il laser disc giapponese. Sapevo che era quello il tipo di cinema che volevo fare. Non era un film ma un’esperienza, un qualcosa di più, che andava oltre quello a cui eravamo abituati. Richiedeva una “forma mentis” completamente diversa, e la struttura di “Solo Dio perdona” in un certo senso è la stessa di “El Topo” o “La montagna sacra”, una struttura non lineare, episodica. Momenti diversi che messi insieme raccontano una storia, attraverso una costruzione poco ortodossa. E’ come entrare nella mente di una persona e vedere le immagini che vede quella persona, come se ci fosse un significato nascosto, un enigma che continua a crescere. Quando mi sento troppo sicuro di me, mi chiedo: che cosa avrebbe fatto Jodorowsky?

Come ha coinvolto Kristin Scott Thomas in questo progetto?

Per i miei film non ho mai tanti soldi a disposizione, quindi ero alla ricerca di qualche attrice sconosciuta. Avevo sentito che lei voleva lavorare con me e che aveva letto la sceneggiatura, e quindi ci siamo incontrati a Parigi. La conoscevo per i ruoli che interpreta di solito, quelli dell’aristocratica o della donna fragile, ma all’inizio della cena mi sono reso conto che non avrebbe avuto nessun problema a trasformarsi in una “strega stronza”. Trattandosi di un film che parla del rapporto madre/figlio, il suo è un personaggio molto complesso e stratificato. Tra l’altro lei mi ha detto che non le piacciono i film violenti, che non guarda nulla di estremo, che è una donna di mezza età inglese che vive a Parigi leggendo Oscar Wilde. Però era disposta a provare qualcosa di completamente diverso. Per interpretare questo ruolo si è completamente trasformata e mi ha mandato una foto in cui aveva i capelli lunghi e biondi. E io ho detto: “Salve, Donatella Versace!”

Rispetto a oggi, una volta si sentiva più ribelle?

Ho un odio radicato nei confronti dell’autorità, che ancora conservo. Credo che il principale nemico della creatività sia il buon gusto. Il mio lato punk non è cambiato, anche se con gli anni sono diventato più furbo o più intelligente. Magari oggi ho un aspetto migliore, ma io credo che si debbano conservare quelle parti di sè, soprattutto se si vuole lavorare nel mondo dell’arte. Non bisogna mai perdere quella scintilla, quel bisogno di creare.

Come ha affrontato a 24 anni il suo primo lungometraggio?

Quando ho realizzato il mio primo film l’ho fatto con l’arroganza tipica della gioventù. Un modo fantastico per iniziare!


Le mani di Ryan Gosling/Julian appaiono in diverse scene, in primissimo piano. Per lei che cosa hanno significato?

La prima idea che ho avuto per il film era l’immagine di un uomo che fissava le proprie mani, ma non sapevo che cosa volesse significare. Facendo il film mi sono reso conto che le mani hanno a che fare con il genere maschile, con la violenza. Se a un uomo tagli le mani, è come se sopprimessi tutti i suoi istinti violenti. C’è anche un aspetto che ha a che fare con la sottomissione, dato che quando si prega si mostrano le proprie mani. Ho sempre avuto l’ossessione della mani, quando ero ragazzino tendevo sempre a proteggerle quando mi trovavo in una situazione di pericolo. Hanno anche una certa analogia con i genitali maschili, e si può mostrare attraverso di esse l’impotenza o l’eccitazione sessuale. Quelle di Julian sono mani maledette. Un’altra cosa che perseguita un po’ tutti è questo discorso del rapporto tra madre e figlio. Che ci piaccia o meno, l’uomo, il maschio, il figlio, prima o poi vorrebbe tornare nel grembo della propria madre, anche se non lo ammetterà mai.

Com’è stata per lei questa nuova esperienza a Cannes? Si aspettava che da una parte della critica ci fosse un’accoglienza così contrastante?

E’ stato fantastico. Quando ho assistito a reazioni così violente, sia di coloro che hanno amato il film sia di coloro a cui non è piaciuto, ho capito di aver fatto qualcosa di giusto. Il cinema è arte, e l’arte è esprimere emozioni. Il cinema offre anche molte possibilità di profitti, perché attraverso questa forma d’arte si possono guadagnare miliardi di dollari. Ma per poter guadagnare hai bisogno di uno spettatore passivo, perché non si coinvolge e può consumare di più e più velocemente. Non partecipa, ma questa esperienza gli passa attraverso. Io credo invece che il cinema debba andare contro questo sistema, penetrare il pubblico, scioccandolo o rendendolo felice. L’arte deve colpire violentemente lo spettatore, perché soltanto in questa maniera rimane dentro di lui.


Quale sarà il suo prossimo film?

Sto per realizzare una serie televisiva, “Barbarella”, e mi piacerebbe molto fare un horror e una commedia.

Nicola Picchi