“Mio padre Valerio, talento attento del Cinema Italiano”: Incontro con Francesco Zurlini
03/06/2014

I luoghi amati da Valerio Zurlini, i romanzi di Pratolini portati sullo schermo, il ciclo degli amori impossibili, l’autobiografismo della Prima Notte di Quiete: ripercorriamo questo e molto altro insieme al figlio Francesco.
Le ragazze di San Frediano (1955), Estate violenta (1959) e La ragazza con la valigia (1961): come giudica Papà come psicologo della donna e della gioventù?
"Sono i tre film che fanno parte del ciclo degli amori impossibili: pellicole in cui emerge in maniera completa quello che era la vera essenza della delicatezza con la quale mio padre trattava determinati temi, con particolare attenzione a questo tipo di situazioni impossibili in cui l’adolescente s’innamora della donna più matura. È sempre stata una tematica alla quale lui era molto attento: non per niente in La ragazza con la valigia ed Estate violenta le tematiche sono estremamente simili – lasciando da parte La prima notte di quiete, anche se lo possiamo associare a questo trittico del ciclo degli amori impossibili. L’universo femminile ha sempre fatto parte delle attenzioni di mio padre – cinematograficamente parlando e non – in modo molto particolare: mi vengono in mente dei ricordi in cui mio padre, nel momento in cui si trovava di fronte all’universo femminile, cambiava completamente atteggiamento, utilizzando uno charme ed un attenzione molto particolare. Tutte le persone che me lo hanno descritto e raccontato lo hanno sempre accostato a donne bellissime: non faccio fatica a pensare che questi tre film che trattano l’argomento dell’amore adolescenziale e dell’attrazione nei confronti di una donna più matura appartenessero al cento per cento al suo essere. Sono tre film in cui si raccolgono tante situazioni, perché sono innanzitutto ambientati in luoghi che mio padre amava estremamente quali quelli della riviera romagnola, che io considero a tutti gli effetti la seconda casa di mio padre. I luoghi della sua vita – escludendo Bologna dove è nato e dove ha vissuto in gioventù – sono stati Roma, Venezia e Riccione: di quest’ultima lui era proprio abitudinario e andava rigorosamente nelle stagioni invernali, come se quel paesaggio ricollegato al mare e quindi di nuovo svuotato del turismo estivo lo aiutasse a tirare fuori il meglio di sé stesso. Venezia era l’altro luogo da lui prediletto, e secondo me funzionava esattamente su di lui come Riccione. Erano i luoghi della sua giovinezza – ed erano i luoghi dove costantemente tornava – ed è tornato per tutta la sua vita lì."

Cosa spinse Papà, dopo appunto Le ragazze di San Frediano, a tornare a Pratolini con Cronaca familiare (1962)?
"Mio papà amava Vasco Pratolini, al punto che lo conosceva in maniera molto profonda: io credo che fosse proprio l’amore per il romanzo Cronaca familiare che lo ha portato a tornare su Pratolini, ma il loro connubio non si sarebbe esaurito lì probabilmente, perché è risaputo che il lavoro della vita di mio padre è stato un altro romanzo di Pratolini che è Lo scialo. Nel momento in cui io ho avuto modo di riprendere in mano tutti gli incartamenti di mio padre, ho trovato cinque o sei stesure diverse della sceneggiatura di Lo scialo: è un lavoro di vent’anni, e fa parte di uno di quei progetti rimasti in un cassetto che lui definisce “un anticipo di morte”. Quindi l’intermezzo di Pratolini è un ritorno a un autore che lui amava in maniera completa, e pertanto Le ragazze di San Frediano e Cronaca familiare hanno trovato la loro collocazione: oltretutto quest’ultimo ha vinto anche il Leone d’Oro, perciò è stato un film di grande successo."

Come mai Papà accettò in seguito film forse un po' fuori dalle sue corde come Le soldatesse (1965) e Seduto alla sua destra (1968)?
"Non conosco il reale motivo per il quale ha realizzato due film così diversi rispetto agli altri: i progetti nascono perché una persona ci ha lavorato sopra e perché probabilmente il lavoro svolto lo aveva soddisfatto. Sono effettivamente due film più complicati: Seduto alla sua destra ad esempio è un film che io stesso ho fatto molta fatica a rivedere, in quanto estraneo ai circuiti televisivi. L’ho potuto visionare due volte in tutta la mia vita: la prima è stata a Venezia, ad una retrospettiva subito dopo la morte di papà, e la seconda volta in un'altra retrospettiva a Mantova. Non sono tra i film che io amo e che ricordo di più di mio padre: questo non toglie che fossero entrambi – soprattutto Le soldatesse – da lui estremamente amati."

Possiamo considerare La prima notte di quiete (1972) come un recupero delle sue tematiche predilette e Il deserto dei tartari (1976) come il suo testamento artistico?
"La prima notte di quiete io tendo sempre a tenerlo separato dal resto del lavoro. L’ho rivisto ultimamente: sicuramente è un recupero delle sue tematiche predilette, ma – al contrario dei film in cui queste tematiche emergono in maniera forte, come Estate violenta e La ragazza con la valigia – io tendo ad attribuire a La prima notte di quiete un carattere molto più autobiografico. La figura di mio padre in La prima notte di quiete emerge in maniera molto forte: io stesso quando ero un bambino ho rivissuto insieme a lui esattamente i percorsi che Alain Delon esegue nel film. Ho mangiato insieme a mio padre da Fino, e nel film c’è una scena in cui Alain Delon e Sonia Petrova sono a pranzo in questo ristorante amato da mio padre; la visita annuale all’acquario dei delfini è una cosa che avveniva regolarmente, come le passeggiate sul porto canale; anche la visita alla Madonna del Parto è stato qualche cosa che ho realizzato a più riprese in sua compagnia, come se fossero dei percorsi ciclici ai quali lui piaceva ritornare, ed io – che ero suo figlio ed ero con lui – quando rivedo La prima notte di quiete faccio molta fatica a non attribuirgli questo senso autobiografico che invece non riconosco così forte in La ragazza con la valigia ed Estate violenta, seppur in entrambi i film ci sono sicuramente aspetti autobiografici che riguardano la giovinezza di mio padre, ma in La prima notte di quiete li sento estremamente forti. Il deserto dei tartari invece è un progetto in cui emerge l’amore incondizionato da parte di mio padre verso quella che è la vita e il rigore militare: io credo che, nel momento in cui lui ha incominciato a lavorare a Il deserto dei tartari, fosse estremamente contento di poter raccontare questa storia di soli uomini in cui emerge molto forte questo senso di vita militare. È stato un film molto difficile nella sua realizzazione: io credo che solo per trovare la location – che poi è stata individuata nella fortezza di Bam – ci siano voluti più di un anno e mezzo. Era un film molto amato da mio padre, ma sicuramente per il motivo che ho detto in cui lui probabilmente ha avuto modo di esprimere questo forte senso di rigore militare che aveva dentro di sé. Mi vien da ridere perché quand’ero bambino la sua minaccia di fronte a un insuccesso scolastico era sempre la partenza al Morosini di Venezia: era una minaccia costante, ma proprio perché lui attribuiva al rigore militare una scuola di vita importantissima. Ne Il deserto dei tartari lui ha avuto modo di esprimere questo tipo di situazione, e credo che in un modo o nell’altro fosse uno dei suoi film prediletti."

A più di trent'anni dalla scomparsa, cosa Le manca di più di Valerio come padre e come regista?
Il rimpianto di averlo perso presto è dovuto al fatto che sono sicuro la sua carriera artistica non si sarebbe esaurita così velocemente: nel cassetto erano pronti diversi progetti che oggi andare a pensare se, come e quando si sarebbero realizzati è difficile, cinematograficamente parlando. Mi dispiace proprio che la sua carriera sia stata dettata solo da sette film: il fatto di averlo perso così presto mi impone il rimpianto di non aver potuto ammirare altre realizzazioni dal punto di vista artistico. Come padre – io ho avuto modo di scriverlo più volte in interventi che ho fatto su di lui in retrospettive – non posso far altro che ringraziarlo per avermi lasciato così tanto e soprattutto cose di così tanto spessore. Ho avuto modo di appropriarmi di un eredità artistica e di un’ educazione al bello che lui non ha mai mancato di esercitare su di me: questo io non posso far altro che rimarcarlo. Non è stato un padre presente dal punto di vista personale: conduceva una vita che spesso lo portava lontano da casa, ed io da bambino la sua mancanza l’ho sentita quando ho avuto modo di crescere, nei momenti in cui avrei avuto bisogno di un padre vicino a me. Nonostante tutto, il fatto che lui non ci fosse stato non toglie che lui sia stato grande comunque proprio per lo spessore delle cose che mi ha lasciato, e questo io non posso far altro che rimarcarlo tutte le volte, perché se io ho avuto un determinato tipo di vita e modo di apprezzare determinate cose – avendo una sensibilità di riconoscerle – lo devo principalmente a lui.
Alessandro Ticozzi