“Mio padre Damiano, fautore di un cinema democratico”: Incontro con Sibilla Damiani

27/06/2014

Abbiamo ricordato il regista Damiano Damiani, scomparso un anno fa, parlando di lui con la figlia Sibilla, che ne rievoca l’impegno e l’osservazione della realtà

"Papà si è segnalato nel 1960-62 con la trilogia psicologica Il rossetto, Il sicario e L'isola di Arturo, tratto dall'omonimo romanzo di Elsa Morante: quale fu il suo approccio a tematiche così intimiste?"
"In realtà ci sono due elementi molto importanti che uniscono questi tre film: Cesare Zavattini, che ne fu lo sceneggiatore insieme a mio padre e si stimavano molto tra di loro, e Pietro Germi, che è stato attore sia nel Rossetto che nel Sicario ed era molto amico di mio padre. Questi titoli già da allora possono essere visti come un primo approccio di mio padre verso una visione della realtà che stava cambiando. Se noi prendiamo in considerazione la frase che diceva mio padre rispetto al lavoro capiamo tutto, in quanto lui affermava: “Considero il mio lavoro come un mezzo di scoperta nei riguardi della vita e di me stesso”. Questo è il leit motiv di tutto il suo lavoro: così capiamo che non è vero che lui ha una parte politica e una intimista, come hanno sempre affermato i suoi critici. È vero che lui ha girato anche film come L’inchiesta e Il giorno della civetta, però la sua base fondamentale è che il lavoro gli serviva per scoprire sé stesso e quello che lo circondava. Il rossetto è un film su come i costumi stanno cambiando dopo il periodo buio della guerra. Così anche Il sicario. Si disse che mio padre avesse ripreso dai giornali il caso Fenaroli (era un caso di uxoricidio per interposta persona): un caso di crisi di coscienza di un uomo che viveva una estrema crisi economica. Come sempre per mio padre c’è l’individuo che interagisce con la realtà. Da lì sembrò che lui e altri registi come Vancini e Lizzani riprendessero dalla realtà un po’ di spunti. Fu l’inizio del cinema d’impegno civile. L’isola di Arturo è invece un caso a sé, in quanto mio padre diceva sempre che del libro di Elsa Morante l’aveva proprio colpito moltissimo questo grande amore per l’adolescenza, e anzi lui andava oltre perché il suo grande dilemma era se fosse addirittura ancora più importante l’infanzia. Perciò lui la capiva, e anzi si era innamorato di questo libro perché è appunto un sottolineare questo momento unico e magico che c’è nella vita prima di diventare adulti."

"Papà fu poi appunto esponente del filone politico-civile con Quién sabe? (1976), Il giorno della civetta (1968), tratto dall'omonimo romanzo di Leonardo Sciascia, Confessione di un commissario di polizia al procuratore della Repubblica (1971), L'istruttoria è chiusa: dimentichi (1972), Perché si uccide un magistrato (1974), Io ho paura (1977), L'avvertimento (1980), Amityville Possession (1982), Pizza Connection (1985), L'inchiesta (1987), Il sole buio (1989) e L'angelo con la pistola (1992): quanto fu importante il suo contributo al genere secondo Lei?"
"Come dicevo prima, mio padre fu un grandissimo osservatore rispetto alla realtà, e in questo senso lui fu un capostipite del cinema d’impegno civile insieme a Rosi e a Petri negli anni Sessanta e Settanta, tant’è che se si va a vedere negli anni Settanta giornali come L’Espresso o anche chi andavano a intervistare le televisioni se si doveva chiedere un parere su cosa pensasse il cinema su eventi politici e sociali giravano sempre questi nomi, e quindi mio padre era riconosciuto per questo suo ruolo, oltre che per quello che aveva fatto nell’ANAC. Lui è stato solo un anno presidente, però insieme agli altri suoi colleghi si è battuto molto per la libertà contro la censura e per un cinema democratico e libero: in quegli anni non si è risparmiato. La sua particolarità era il trattare discorsi sociali facendo un analisi della responsabilità dell’individuo: ogni individuo ha una sua responsabilità dentro le scelte sociali. Meno male che poi Lei ha messo Quién sabe? nel filone politico-civile, perché spesso l’hanno bollato come un semplice spaghetti western e questo faceva veramente arrabbiare mio padre: invece sono contenta che Lei l’ha definito come tale."

"Per la televisione Suo padre diresse, tra l'altro, gli sceneggiati La piovra (1984) e Il treno di Lenin (1990): come fu il suo approccio al piccolo schermo?"
"Nei primi anni Ottanta la televisione prese un po’ il sopravvento sul cinema, e questo portò una grande rivoluzione: pertanto i registi in qualche modo gli incontri con questo piccolo schermo dovevano farli per forza. La piovra fu un grandissimo successo per allora: quindici-sedici milioni la prima puntata nessuno se li aspettava, e invece tutti dovettero stupirsi ed essere ben felici di questo prodotto, che per la prima volta portava con coraggio un modo cinematografico di fare televisione. Non erano i soliti temi accondiscendenti e tranquillizzanti, bensì ponevano duramente delle realtà in ambito televisivo per chi pensava che dovesse essere solo coccolato. La risposta fu molto positiva, tant’è che mio padre fu incoraggiato da questo, anche se, nonostante il pubblico rispose bene, ci fu un grande dibattito sia nei giornali che nelle televisioni su quanto sia lecito raccontare i mali della società o meno. Fu anche accusato quasi di essere lui la causa di questo male, o comunque sia di avallarlo. Il treno di Lenin fu invece una grandissima coproduzione con la Germania, ma anche lì, siccome faceva vedere in qualche maniera anche le responsabilità di Lenin e il suo rapporto con la Germania, non accontentava né destra né sinistra, e quindi non ebbe una spinta da parte di qualcuno in particolare. Fu un buon successo, però poi non è più circolato purtroppo, pur essendo un bellissimo prodotto anche storico con un altissimo cast di attori. Lui ha realizzato dei prodotti molto buoni, se penso per esempio a quanto è stata diffusa La piovra in tutte le parti del mondo. Purtroppo lui fece solo la prima serie in quanto pur essendone l’ideatore decise di rinunciare ad un prodotto seriale perché sminuiva il valore del prodotto stesso secondo lui. Questo economicamente per lui fu uno svantaggio, però riuscì a portare anche sul piccolo schermo un grande tema allora abbastanza tabù, e soprattutto anche tecnicamente riuscì a portare un modo di fare televisione diverso, con delle riprese cinematografiche."

"A un anno dalla scomparsa, cosa Le manca di più di Damiano come padre e come regista?"
"Mi manca tutto di mio padre: mi manca soprattutto quella generazione meravigliosa di registi del dopoguerra, che evidentemente avevano quell’energia che forse noi non abbiamo e una partecipazione alla vita incredibile. Mi domando spesso che cosa avrebbe scritto mio padre in questo periodo sull’Italia e se la sua passione per la democrazia e l’onestà sarebbe venuta meno oppure se c’avrebbe dato coraggio ugualmente, perché tutta la vita l’ha spesa sempre per portare avanti dei principi. Lui diceva fondamentalmente di essere un illuminista e un democratico: questo era il suo essere. Mi mancano tanto quelle persone così."

Alessandro Ticozzi