“Mio padre Gillo, Regista dalla parte delle lotte terzomondiste”: Incontro con Simone Pontecorvo
04/08/2014

A colloquio con Simone, il figlio del grande regista Gillo Pontecorvo.
Com'era il rapporto di Papà coi suoi fratelli Bruno e Guido?
"Credo che nostro padre avesse un bel rapporto con Guido. So anche che da piccolo aveva molta ammirazione per lui e per gli altri fratelli che avevano intrapreso le materie scientifiche. Materie per cui lui non era particolarmente portato, e che vedeva come esclusivo appannaggio di chi aveva qualità superiori. Guido era il più grande di 8 figli, aveva 12 anni più di papà ed è anche stato il primo ad uscire di casa. Quindi non ha vissuto molto insieme a lui. Tra i due c’era anche una maggiore distanza anagrafica di quella che c’era con Bruno; che era, tra i fratelli più grandi della famiglia, quello più vicino a Gillo come età. Nel periodo di Pisa, Bruno ha passato a papà, una delle passioni più forti della sua vita: il tennis. Nel 1938 papà si stabilì a Parigi da lui. Li la loro unione divenne ancora più forte. In quel periodo mio padre era diventato fortissimo a tennis e girava in Svizzera, Francia e Inghilterra per i tornei. Bruno, nel periodo parigino, lo aveva introdotto nel gruppo dei suoi amici scienziati, tra i quali due futuri Premi Nobel, Frederic Joliot-Curie e Salvador Luria, e Sergio De Benedetti, futuro consigliere scientifico di Carter. Oltre all’ambiente dei suoi colleghi, Bruno lo introdusse negli ambienti dell’emigrazione antifascista. Questo periodo, a detta di nostro padre, contribuì molto alla sua apertura mentale, apertura che non avrebbe mai potuto sperimentare in Italia: dove nei luoghi pubblici c’era scritto “ non si parla di politica né di alta strategia”. Un’altra cosa particolare nel loro rapporto, è che mio padre, qualche anno dopo entrò a far parte della lotta di Liberazione in Italia, proprio a causa del contatto che Bruno aveva creato tra lui e tre dei suoi amici di Parigi: Amendola, Pajetta e Negarville. È inutile poi dire quanto la Resistenza abbia contato nella sua vita e nel suo cinema. Per tutti questi motivi credo che il rapporto con Bruno sia stato un rapporto molto speciale."

Papà fu documentarista negli anni Cinquanta (Pane e zolfo, 1959), nonché assistente di Yves Allégret e autore per La rosa dei venti di Joris Ivens del mediometraggio a soggetto Giovanna (1955), fino al suo esordio nel lungometraggio con La grande strada azzurra (1957), con cui iniziò a collaborare con lo sceneggiatore Franco Solinas: come furono questi suoi inizi?
"Nostro padre era molto legato al suo periodo da documentarista. Raccontava del fatto che molti giovani, che come lui avevano vissuto attivamente il periodo della guerra, fossero trascinati dalla voglia di riflettere, su ciò che era accaduto e di guardare alla realtà ereditata con la voglia di ripartire verso una società migliore. Questa fu soltanto una delle premesse. La visione di Paisà di Rossellini alla Salle Pleyel di Parigi, ed una serie di incontri dovuti alla sua attività politica e giornalistica (Peppe De Santis, Carlo Lizzani, Franco Solinas, Joris Ivens) lo portarono ad avvicinarsi al mondo del cinema e del documentarismo. Nel 1946 fece l’assistente alla regia e l’attore, insieme a Lizzani, nel film di Aldo Vergano sulla Resistenza Il sole sorge ancora nel quale De Santis era aiuto regista. Nel 1950 fece l’aiuto di Yves Allegret ne I miracoli non si ripetono. Con Ivens nel 1951 lavorò ad un progetto collettivo di riprese documentaristiche sul festival mondiale della gioventù, che si svolse a Berlino. Nello stesso anno girò durante l’alluvione del Polesine Missione Timiriazev. Tra il ‘52 e il ‘53 fece l’aiuto regista a Monicelli su Le infedeli e su Totò e Carolina. Tra i suoi documentari girò: Porta Portese; Festa a Castelluccio; Cani dietro le sbarre; Pane e zolfo, che vinse il premio per il documentario al festival di Carlovy Vary. Nel 1955 il suo primo medio metraggio, come indicato nella domanda, è Giovanna, episodio italiano del film coordinato da Joris Ivens La rosa dei venti. Ogni volta che nostro padre aveva l’occasione di parlare a dei ragazzi che volevano avvicinarsi alla regia, raccontava di come fosse stato importante per quelli della sua generazione il fatto che all’epoca ci fossero incentivi e premi governativi per poter realizzare i documentari. Una vera palestra per chi avesse voluto fare film di lungometraggio."

Papà raggiunse notorietà internazionale con tre film: Kapò (1960), La battaglia di Algeri (1966) e Queimada (1969). In questi titoli che filo conduttore possiamo trovare della sua poetica?
"Il filo conduttore che possiamo trovare nel cinema, che con Franco Solinas e poi con Pirro e Arlorio, ha costruito è una forte attenzione verso l’arrancare dell’uomo nei confronti della durezza della propria condizione. La difficoltà di portare avanti la vita di tutti i giorni, in condizioni di povertà per La grande strada azzurra; la lotta dei popoli per la propria autodeterminazione, per la liberazione dalle dittature e dal colonialismo nei film La battaglia di Algeri, Queimada e Ogro. L’uomo di fronte al dramma dei campi di concentramento per Kapò."
Papà ha poi realizzato solo un altro film, Ogro (1979): possiamo considerarlo la summa del suo pensiero?
"Anche Ogro, come La battaglia di Algeri rientra nel bisogno di mio padre di analizzare la tematica della liberazione dall’oppressione. La battaglia di Algeri è la lotta di liberazione algerina vista nella sua totalità; mentre Ogro è il racconto minuzioso di un episodio isolato ma determinante della lotta al Franchismo in Spagna. Quindi lo considero una delle varie sfaccettature dello stesso percorso di ricerca artistica, ma non la conclusione, nonostante questo sia il suo ultimo film."

Dal 1992 al 1996 Papà fu direttore della Mostra del Cinema di Venezia: come visse quell'incarico?
"Va detto che, dalla metà degli anni Cinquanta, papà ha frequentato ogni edizione del festival. E che lui, e tutti quei giovani che come lui amavano e facevano il cinema, vivevano Venezia come il più importante punto d’incontro per vedere film e parlare di questo mestiere. Andavano a spese proprie, discutevano fino alle tre di notte di stile e contenuti. Poi c’ è stata la partecipazione di Kapò nella sezione informativa del festival 1960; il Leone d’Oro a La battaglia di Algeri nel 1966; il grande successo di pubblico alla presentazione di Ogro al festival del 1979, anno in cui non c’era competizione. Tutti questi legami e l’amore per la città di Venezia, nonché la voglia di lottare dall’interno per la salute del cinema, del festival e dei festival in genere, lo hanno portato nel 1992 ad accettare un incarico di tipo molto diverso dal mestiere che faceva. In realtà, ha, come dice qualcuno, vissuto e operato il mestiere di direttore di festival in maniera molto simile a quella di un regista. Volendo sempre intervenire in prima persona su ogni questione: dalla lotta alla burocrazia; al tentare di creare una maggiore interattività tra pubblico ed addetti ai lavori; nel voler riportare i giovani al festival, anche in campeggio tramite un concorso nelle scuole; nel cercare anche una maggiore interazione tra i vari festival internazionali. Ed in ultimo, ma forse punto più importante, nel cercare di ridare alla mostra la definizione di capitale mondiale degli autori."
Alessandro Ticozzi