
A colloquio con il figlio del regista Luciano Emmer.
Papà conquistò negli anni Quaranta rinomanza internazionale con numerosi film sull’arte realizzati con Enrico Gras: cosa lo spinse nel 1950 a passare al “neorealismo rosa” debuttando nel film a soggetto con Domenica d’agosto?
La prima cosa che vorrei dire è che la maggior parte dei documentari di mio padre di quegli anni sono stati sì girati con Enrico Gras, ma anche con Tatiana Grauding, che lui sposò nel ’42 e che è mia madre, la quale a un certo punto, dopo una decina di documentari, disse che non voleva più comparire. Quindi i film sono stati realizzati con una società di produzione che si chiamava Dolomiti Film, che era del padre di mio padre: si chiamava Dolomiti perché la famiglia Emmer in realtà è di origine trentina, essendo mio nonno di Cles in Val di Non. Luciano cominciò a girare con mia madre e con Enrico Gras i documentari perché aveva voglia di fare cinema: era studente di legge e rifiutò di laurearsi. Prese una vecchia macchina cinematografica e con la pellicola a piccoli rotoli - che duravano tre o al massimo cinque o sei minuti - cominciò a fare documentari perché costavano meno ed erano più semplici da realizzare. Non è neanche realmente avvenuto un passaggio dal documentario al cinema di finzione, tant’è che lui ha continuato a fare documentari tutta la sua vita. Quelli che giravano film in quegli anni erano un gruppo di giovani artisti e letterati che ruotava intorno a Roma, da Fellini a Visconti: era tutta gente che voleva fare cinema. Quando mio padre incontrò lo sceneggiatore di Rossellini – Sergio Amidei – questi gli propose di fare un film su Roma, e lui voleva comunque provare a confrontarsi e a capire che cosa era capace di fare: aveva conosciuto Marcello Mastroianni, che in Domenica d’agosto era doppiato da Alberto Sordi perché non aveva tempo di fare il doppiaggio. La pellicola ebbe un grande successo: quindi indubbiamente è stato un grande film, dimenticando una definizione che mio padre odiava e che considerava offensiva quale quella di “neorealismo rosa”. Siccome un film funziona o non funziona, il neorealismo rosa è stato inventato da qualche critico che non aveva nient’altro da fare: non esistono neorealismi verdi, gialli o blu ma soltanto film neorealisti.
Sulla stessa falsariga, Papà realizzò poi Le ragazze di Piazza di Spagna (1952), Terza liceo (1953) e La ragazza in vetrina (1960): che Italia era quella rappresentata in questi film?
La commedia toccava la piccola borghesia italiana e la voglia di vivere di quando era finita la guerra, mentre i grandi capolavori del neorealismo descrivono l’Italia della guerra, della distruzione e della fame, com’era giusto fare ed è importantissimo che tutto questo sia rimasto. Quando finiscono gli anni Quaranta ed io ero bambino, c’era ancora la “quasi fame” anche nella nostra famiglia: stavamo attenti a quello che si mangiava, si misurava il cibo e anche nel cinema giravano pochissimi soldi. Le commedie di papà erano un modo per far esplodere la gioia di vivere: quello che conta però è anche il modo in cui venivano realizzati questi film. Per esempio, l’inizio di “Le ragazze di Piazza di Spagna” che parte dalla casa di quel signore che vede le ragazze che vanno a lavorare è assolutamente geniale: la stessa cosa vale per “Terza liceo”, che poi ha influenzato direttamente la mia vita perché la professoressa di matematica di quel film sarà una mia insegnante al liceo Tasso, dove lei si spostò in quanto il film era stato girato al liceo Mamiani. Tutto questo ha avuto una grande influenza nella mia vita, perché poi ho fatto il matematico influenzato anche da quella professoressa. “La ragazza in vetrina” invece è un film completamente diverso: mio padre ha sempre rifiutato di dire che è stato fatto sull’onda della tragedia di Marcinelle, perché descrive gli italiani che lavoravano nelle miniere di carbone. La pellicola comincia con delle scene di crollo della miniera girate in studio: io ho avuto la fortuna, quando ero ragazzino, di stare sei mesi con mio padre mentre giravano il film. Tutta la miniera è stata ricostruita artificialmente e sembrava assolutamente vera: non c’è nessun effetto speciale. I mezzi erano pochissimi: la famosa scena in cui si vedeva la discesa è stata fatta praticamente con uno zoom continuo. Era in fondo un film in cui si raccontava la vita delle ragazze che si prostituivano ad Amsterdam: per cui fu censurato, anche se oggi risulta una pellicola per educande. Mio padre si arrabbiò moltissimo perché allora fu tagliato in diversi punti per vari minuti: molti dei suoi film furono ritenuti immorali dell’area andreottiana che faceva parte del Ministero della Cultura. In “La ragazza in vetrin”a c’era una splendida Marina Vlady, che aveva vent’anni ed era di una bellezza inarrivabile: mio padre è sempre stato molto abile - un po’ come Lattuada - a gestire le ragazze attrici, e questo film segnò anche in qualche modo il lancio di Marina Vlady, oltre che di Bernard Fresson, il quale aveva già interpretato una parte in “Hiroshima mon amou”r di Resnais. “La ragazza in vetrina” segnava una svolta nella carriera di mio padre, che poi si arrestò con quel film.
Cosa spinse Papà ad abbandonare poi il cinema per la pubblicità e la televisione?
Mio padre aveva smesso di fare cinema perché era rimasto disgustato da quello che era successo con “La ragazza in vetrina”: nel frattempo però era nato Carosello, e mio padre ne girò la famosa sigla con me presente. Tutti i registi italiani hanno lavorato a Carosello - anche se magari qualcuno se ne vergognava e lo faceva sotto falso nome - perché comunque, tra un film e l’altro, questo permetteva di guadagnare in un tempo più veloce rispetto a un film. Mio padre girò più di tremila Caroselli: era un’attività molto remunerativa e gratificante, perché comunque avevi a che fare con grandi attori, e questo permetteva anche di migliorare le proprie cognizioni tecniche e trasferirle poi nel lavoro del cinema. Dall’insieme della delusione per l’esito di La ragazza in vetrina e dal fatto che con il Carosello aveva un lavoro certo, e in più dal fatto che mio padre alle volte aveva un carattere molto difficile – e questo tutti i produttori lo sapevano – egli si ritrovò in questa situazione, e quindi per molti anni gli fu difficile realizzare film.
Cosa spinse Papà a tornare tornò al grande schermo dopo tanti anni di assenza (Basta! Ci faccio un film, 1990; Una lunga, lunga, lunga notte d'amore, 2001; L'acqua... il fuoco, 2003) e come mai ciò avvenne con tempi appunto così dilatati tra una pellicola e l'altra?
Passati trent’anni da La ragazza in vetrina, a mio padre venne l’idea di girare un film riprendendo l’idea di “Terza liceo” quarant’anni dopo. Il film non era molto riuscito per vari motivi, e anche la sua abilità di girare si era un po’ appannata: non ne abbiamo mai parlato direttamente, ma magari in fondo il film non gli piaceva per niente. Invece “Una lunga, lunga, lunga notte d’amore” era un film molto più pensato e interessante: era ambientato a Torino, perché da qualche anno si faceva una politica molto accorta sul produrre cinema, e molti film venivano girati appunto a Torino. Anche “L’acqua… il fuoco” era un film non riuscito, con una Sabrina Ferilli decisamente fuori parte. Mio padre voleva tantissimo ritornare a fare film, però quando lo richiamarono lui aveva già ottant’anni: essendo passati tanti anni, lui aveva molte difficoltà a trovare credito. Giancarlo Giannini lo ha aiutato molto, essendo stato protagonista degli ultimi due film che ha realizzato: ciò nonostante, papà continuava a girare sempre documentari. Lui non vedeva molto la differenza tra il girare un film di finzione o un documentario: quello che voleva raccontare mio padre erano delle storie. Aveva una enorme capacità di immaginare e di plasmare tutto quello che gli veniva in mente.
Cosa spinse infine Papà a tornare alla televisione con Le fiamme del paradiso (2006) e Il cardo rosso (2007)?
In realtà non si tratta di un ritorno, in quanto lui non ha mai abbandonato la televisione: Le fiamme del paradiso è stato girato in Val di Non, con attori tutti presi in quella zona e girato nella lingua locale, così come Il cardo rosso.
A cinque anni dalla scomparsa, cosa Le manca di più di Luciano come padre e come regista?
Questa è una domanda a cui posso dare una risposta parziale, nel senso che i rapporti tra me e mio padre restano appunto tra noi due. Come regista sicuramente aveva una grande capacità di osservare e di guardarsi intorno. Non c’è dubbio che mio padre nel cinema era un serissimo professionista che sapeva esattamente come usare le tecniche e le idee sfruttando al massimo le persone, magari a volte anche più del dovuto per raggiungere esattamente quel che voleva ottenere