Abitare, abitarsi. Dentro e al di fuori del "Se" e dell'Io soggettivi e collettivi. Ma, come si arredano le stanze interne dell'Anima? Provano a rispondere cast e produzione del bel film: "Dove non ho mai abitato", distribuito dalla Lucky Red, per la regia di Paolo Franchi, con interpreti di eccezione Emmanuelle Devos (davvero straordinaria), Fabrizio Gifuni (un cinico mistico con la barba), Giulio Brogi, Isabella Briganti, Giulia Michelini, Fausto Cabra. Sono Franchi e Gifuni, l'intellettuale di pregio (senza alcuna ironia: basta ascoltarlo con attenzione!), a raccontarci il dietro le quinte delle menti che hanno concepito storia. Poi, uno sguardo da vicino sul set e la sua fatica, molta fatica, per portare a compimento l'opera. Capire bene per intuire qualcosa, si direbbe: il genere è quello di un cinema.. in costume, rifratto però dentro gli schemi più moderni stile anni 60 delle società del benessere. Né, sentimental, né comedy, insomma. Luogo scenico e trionfo immateriale di paure, fragilità, incessante rimessa in discussione di sé stessi. Un torrente emozionale, in cui rumoreggiano e spumeggiano impetuosi una serie di stati d'animo. Confusi, per la maggior parte. La resa dei conti è con quello che si è perduto strada facendo, scegliendo il ramo di una biforcazione esistenziale piuttosto che un'altro.
Come, ad es., quello di un tranquillo ménage familiare con un finanziere francese di successo, ma sempre meno, molto meno arido dei suoi soldi incompassionevoli. La Via Lattea, quella dell'illuminazione cosmica, è nei due "Grazie!" che la sua superlativa protagonista Emmanuelle Devos (Francesca) rivolge a voce bassa al suo ancor man familiare nel loro letto matrimoniale, e quello rigato di lacrime silenziose, post mortem, rivolto a suo padre, un burbero Caronte che l'ha lasciata sulle rive di un limbo parigino, per riprendersela con una forza gigantesca sulla soglia del suo definitivo e ultimo redde rationem. Lettere d'amore, poi, già scritte o rimaste nella penna per eccessivo gelo emotivo e affettivo. A chi chiede il perché di un film in cui gli architetti (ebbene, confesso: lo sono anch'io. Laurea 1973 con Quaroni!) siano i protagonisti e intende sapere se sussista un'allegoria tra parti piene e quelle vuote, monsieur le Directeur risponde che no, perché lui odia le case arredate (ci si rompe facilmente il femore, come succede al grande architetto Manfredi De Marchi (Giulio Brogi), titolare dello studio e padre di Francesca.
Per Franchi, si tratta di un film simbolico e metaforico, in cui chi costruisce le case per gli altri, contemporaneamente demolisce la sua. Una prosa filmica di volti e non di corpi, perché laddove questi ultimi ci sono, l'amplesso è appena accennato, colto di sfuggita, per far capire che anche la carne è coinvolta. Un cinema classico con dissolvenze al momento topico della faccenda sessuale. "Io non spio dal buco della serratura perché odio la pornografia", dice il Franchi, per il quale il film non è algido, ma soltanto una sorta di melodramma raffreddato. Ma è Gifuni (Massimo) a dare il vero colpo d'ala alla conferenza, avendo capito dall'interno quello che si intende raccontare. Ovvero, trattare la questione filosofica di abitare posti che non sono propri internamente (soprattutto) ed esternamente, blindando in essi sentimenti ed emozioni. Lei e lui architetti per vocazione (la prima da vent'anni in disarmo), che si specchiano nelle reciproche solitudini, piene di buchi, bugie e di contraddizioni. Una coppia vera nata e negata, ma che si annusa e si riconosce tale. Uno guardo molto caldo e pieno di compassione verso la fragilità dei personaggi, utile a trasformarli in energia superiore. Il tutto con uno sguardo impersonale, che osserva senza giudizio né pregiudizio la paura e la fragilità, i due veri motori del film.
Per Isabella Briganti (Sandra, l'amante libera di Massimo), non sentirsi amati mette a nudo le debolezze, le fragilità e le miserie del protagonista maschile, che non riesce mai veramente ad amare. Lei, la presente-assente, gelosa di nessuna donna e meno che mai di Francesca, della quale non può sfidare né lo charme irresistibile, né la levatura creativa e culturale. Un avvocato, contro un architetto di talento: una partita ingiocabile. Perché se qualcuno asserisce che il film appare perfettamente risolto (Dio ce ne scampi, altrimenti lo spettatore nulla può metterci di suo!), per Franchi, che gioca magistralmente sull'asse Roma-Parigi e con i loro spazi urbani smisuratamente diversi, la differenza di lingua e di paese ha condizionato la scelta su di attrice non italiana, per costruire un ruolo coppia di 50enni che sono i 30enni di venti anni fa. Emmanuelle è perfettamente checoviana, malinconica ineffabile, perfetta per la parte; mentre Gifuni è stato scelto dopo una serie interminabile di profili, perché più.. europeo. Anche se gli attori che giocano a fare gli intellettuali lo spaventano, in quanto "sono i peggiori!".
E Gifuni, in realtà, non si smentisce. Anzi. Ci dice di cercare altri modi di lavorare sul personaggio concentrandosi sull'emotività, sul lavoro interno, senza scadere nel mascheramento o nella pantomima: né maschere né pupazzi, quindi. Piuttosto, quel concentrarsi sulla macchina da presa, per pedinare gli stati d'animo dei personaggi. Fare un lavoro di sottrazione: togliere, togliere e poi ancora togliere all'aspetto intellettuale, un po' deviato e corrivo, costringendolo a concentrarsi esclusivamente sui movimenti interni. Lavoro che Emmanuelle Devos definisce alla stregua di chi si sente inchiodato come le farfalle, con un corpo che scompare e si concentra solo sui primi piani di un film altamente formale, dotato di un'eleganza profonda che apre possibilità ricchissime, senza pur tuttavia scoprire cose nuove.
Ma qui, anche la Produzione ha le sue belle idee da riferire. Saccà è riuscito perfino a farsi sponsorizzare dall'azienda avveniristica italiana che costruisce e progetta moduli abitativi per.. Marte! E la sceneggiatura l'ha letta d'un fiato una notte intera, affascinato da un racconto iper contemporaneo che descrive in modo straordinario la solitudine e l'impotenza della borghesia, come nemmeno era riuscito a fare il mitico film di Luis Buñuel. Una borghesia inanimata, che non riesce a rispondere alla chiamata dell'eros pur sempre accompagnato dall'ombra del thanatos, che però catarticamente qui non arriva mai perché non c'e capacità di comprendere, di assumersi le proprie responsabilità come elites. Poi, definisce Franchi un grande borghese lombardo, il solo quindi che potesse mettere a nudo queste non-qualità borghesi, e racconta di aver temuto per la sorte del film, in quanto Devos e Gifuni "non si prendevano" (chissà che scene nel backstage!). Ma Franchi è stato l'incantatore perfetto di serpenti, facendo progressivamente rilassare la Devos più di Freud, anche se qualche scontro con la regia c'è stato a proposito del costo troppo elevato di certi costumi di scena.
Sinceri complimenti a tutti, da parte mia!