
La solitudine, la perdita, l’incomunicabilità, la finzione e la verità, la colpa, il contatto tra anime diverse.... Tutti temi pregnanti, assoluti, che pure affiorano al contempo in Drive My Car di Hamaguchi Ryusuke. Difficile raccontare, ed anche seguire, un film così, perché la sua lettura è a più livelli, perché prende i suoi ritmi e la narrazione non va diritta come la strada che i due protagonisti seguono, e alterna parole che vanno a riempire dialoghi fittissimi, parole rivelatrici di ferite celate, a silenzi e immagini di toccante bellezza nelle quali lasciar sedimentare emozioni e pensieri.
Raccontare Drive My Car è breve: un regista teatrale che non ha superato la morte della moglie, costretto a viaggiare con una giovane autista introversa, a poco a poco vince la riluttanza e la ritrosia e tra i due si instaura un rapporto di reciproca confidenza, confessandosi a vicenda i loro segreti più nascosti e arrivando a capirsi nel loro dolore. Ma il film di Hamaguchi è molto più di questo. Il regista dilata in un film di tre ore un racconto di Murakami e vi mescola Cechov. Cechov che, come vien detto a metà del film, ha il potere di tirarti fuori la verità. E’ un film sulla capacità di ascoltare e che parla della vita.
La rassegna Le Vie del Cinema, che ha visto a Milano molte anteprime giunte direttamente dalla Mostra di Venezia e dal Locarno Film Festival e alcune delle opere premiate al Festival di Cannes, ha potuto vantare tra i suoi ospiti la presenza di Hamaguchi Ryusuke, uno dei protagonisti più innovativi e talentuosi della scena cinematografica odierna che con Drive My Car firma un capolavoro. “Ho rispettato l’essenza, lo spirito del racconto di Murakami anche se la trasposizione è diversa, così come la lunghezza. Mi hanno riferito che lo stesso Murakami faticava a riconoscere cosa avesse scritto lui di quanto veniva detto nel film”. La lunga digressione sulle prove per la messa in scena di Zio Vanja è introdotta da Hamaguchi (“nel racconto viene solo detto che dirige questo spettacolo”) dove la scelta di riunire attori di lingue diverse, persino chi utilizza il linguaggio dei segni, sovrascrive un’altra chiave di lettura del film, che riflette sulla capacità di comunicare e sulla vita del teatro che parla per te, quando fingi di essere un altro. Non è l’unico respiro che l’innovativo regista giapponese si concede, e infatti i titoli di testa arrivano a 40 minuti dall’inizio, quasi quanto abbiamo visto e seguito finora, la relazione tra Kafuku e l’amata moglie, fosse stato solo l’antefatto alla storia che da quel momento si apre. “E’ come se iniziasse un secondo film, e allora anche lo spettatore ha bisogno di concedersi una pausa”.
Capiremo poi quanto il fingere e il tacere, anche per amore, assuma il peso di una colpa, quanto l’ombra del silenzio possa gravare. Lo capiremo nel flusso di parole sempre più intenso nell’abitacolo dell’auto che fa di Drive My Car un road movie dell’anima e lo specchio tra due solitudini. “Certe conversazioni, conversazioni intime, possono nascere solo all’interno di quello spazio chiuso e in movimento che ci aiuta a scoprire aspetti di noi stessi mai mostrati a nessuno, o pensieri che, prima, non sapevamo esprimere con le parole: ed è questo che mi ha spinto a voler girare il film” dice il regista.
Drive My Car trascina, tocca corde profonde, sedimenta nel profondo del cuore e lascia riflettere. Sussurra le parole finali di Zio Vanja “Riposeremo! vedremo tutto il male terreno, tutte le nostre sofferenze affondare nella misericordia che riempirà di sé tutto il mondo, e la nostra vita diventerà quieta, soave, dolce come una carezza.”