
L’ incontro è iniziato con la proiezione di qualche scena del film “The Killer”. Le luci si sono accese, e un applauso è nato tra gli studenti , accorsi per quella preziosa ora e mezza in compagnia del regista kazako Darezhan Omirbayev.
Galeotta è stata la diciannovesima edizione del Cinema Africano, dell’Asia e dell’ America Latina, tenutasi dal 23 al 29 marzo, in quel di Milano.
Mentre l’incontro ufficiale con il regista era atteso per venerdì 27 marzo, il cineasta Kazako ha deciso di offrire un antipasto della sua grandissima bravura, agli studenti di Storia del Cinema, presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore della metropoli lombarda.
Attorniato dal critico cinematografico Giuseppe Gariazzo, e il professore di cinema a Tunisi Tahar Chikhaoui, è stato accolto dalla docente Elena Mosconi, fortemente emozionata e orgogliosa.
L’approccio quasi mistico del regista ha fin da subito enfatizzato la sua essenza artistica: parole misurate, pronunciate sempre con pacatezza, dopo qualche minuto di riflessione. Risposte articolate e ricche di proverbi cinesi e aneddoti personali.
Omirbayev ci ha offerto uno spaccato socio-culturale del suo paese natio, il Kazakistan, che è per lui grande fonte di ispirazione e di influenza nella sua concezione di cinema e della sua idea cinematografica. È lui, in effetti, il nuovo esponente di quella Nouvelle Vague kazaka. Ed è proprio con questa frase che il critico Gariazzo ha iniziato la presentazione del regista, notato e chiamato nei principali concorsi cinematografici europei, dopo che le migliori penne di cinema hanno notato il suo talento.
Il cinema di Omirbayev è un cinema complesso, che non scende a compromessi. Vi è presente un linguaggio audace, mai scontato che si esplica in un mondo di sogni, con una narrazione non lineare, ma arricchita di flashback, tali da far vivere l’inconsapevole spettatore in un fittizio presente.
Gli stessi personaggi sono molto forti. Suscitano profonde emozioni, in un contesto sociale, quello kazako, che sosta in un momento di cambiamento: dal regime sovietico a quello capitalistico occidentale, governato dal dio denaro e da una forte commercializzazione di tutto. Cinema compreso.
E proprio durante questo passaggio da un regime all’altro, Omirbayev trova spazio per un cinema asciutto, privo di colori sgargianti, di parole urlate, di personaggi amplificati e resi caricature.
Quella libertà anarchica, che si spargeva a macchia d’olio, ha permesso di raccontare tutte queste contraddizioni, la perdita di un orientamento e di una vita scandita da chiari valori.
Il professore di cinema,Chikhaoui, risponde al colpo di Gariazzo, e evidenzia tre elementi principali della poetica cinematografica Omirbayevana: la sua macchina da presa segue il personaggio in ogni luogo, ma non svela tutto di quest’ultimo. “Mantiene un certo mistero, rispetto al quale, invita lo spettatore a scavare dentro lo stesso.”
Mentre i due esperti presentano il regista e la sua opera, il diretto interessato ascolta la traduzione e rimane impassibile, sguardo pensieroso e fisso davanti a se.
Inizia con i consueti ringraziamenti, e ribadendo che i suoi film parlano per lui, si mette a disposizione delle domande della platea.
La prima non tarda ad arrivare, e molte altre seguono a ruota.
Viene, per esempio, tentato un parallelismo tra la temporalità di Antonioni e quella del regista kazako. La risposta è arguta, che smentisce forse una certa accezione etnocentrica della temporalità occidentale. Secondo il regista, non esiste una temporalità unica. Esistono molte temporalità, e quella che usa lui, nelle sue perle, non è altro che la temporalità del popolo kazako; un popolo nomade, abituato alla vita lontana dai centri urbani. Una vita fatta da tempistiche naturali, riflessive.
Il neorealimo ha evidentemente alimentato molto il suo amore per il cinema, ma non condizionando la sua percezione del reale e la modalità di rappresentarla.

“I film di Antonioni sono fatti sulla noia, ma quando li guardi, non ti annoiano. Allo stesso tempo, ci sono dei film sulla bella vita, che quando li guardi, ti annoiano a morte”.
Le frasi del cineasta si susseguono sempre sullo stesso stile: corte, incisive e speculari alla sua vivacità intellettiva.
Un lungo commento positivo trova la sua espressione dall’intervento della padrona di casa, che elogia e cerca di attribuire un significato alla cinematografia del cineasta, che risponde con un secco, ma non scontato “Ha ragione”, suscitando le risate dell’auditorium.
Poi, ribadisce l’importanza dell’impronta del regista nel comporre i suoi film; la presenza di elementi che ciclicamente compaiono e che fan sì che siano dei marchi di fabbrica e di qualità dell’artista. “Proprio l’impronta permette di essere abbagliati da un film, e di sentire il bisogno di tornare a vederlo”.
“Nel cinema, esistono due tipi di film: quello basato sull’interpretazione dell’attore, e quello basato sull’immagine. Io ho sempre cercato di fare questo secondo tipo di film. Proprio per questo, io scelgo attori dalla strada, non professionisti. Come dice Bresson, esiste una differenza tra l’essere naturali e avere naturalezza. Io cerco la seconda.”
Il discorso si sposta poi sul suo quinto lungometraggio “Chuga”, adattamento in chiave moderna, del romanzo di Tolstoji, “Anna Karenina”.
Non è il primo ad aver fatto un adattamento del capolavoro letterario, ma è degna di nota la sua idea di trasportarla nella contemporaneità, cercando di contestualizzare una storia fatta di sentimenti e di vita.
“Il mio obiettivo era quello di trasformare il linguaggio del romanzo in un linguaggio fatto di suoni e immagini, che è quello cinematografico.” dice il regista.
E proprio sul linguaggio, si basa l’ultima domanda, posta dal critico Gariazzo. In ogni film di Omirbayev, infatti, compaiono le due lingue parlate in Kazakistan, il russo e il kazako.
Si apre perciò un’ ultima parentesi sulla situazione, ormai analoga in molti paesi, di uno stato che si affaccia alla globalizzazione, e che deve fare i conti con il rischio della perdita della propria identità nazionale.
E il kazakistan non è da meno; “il 60% della popolazione è kazako, ma la lingua ufficiale, delle città è il russo, perché tramite questa lingua sono arrivate le tecniche nel Paese. Io, una volta, parlavo a stento il russo, mentre oggi mio figlio parla quotidianamente in inglese. È un affresco del cambiamento linguistico e globale. Si dovrà vedere cosa ci riserverà il futuro, e chi vincerà la contesa.”
L’ incontro si chiude, con una frase ad effetto della prof. Mosconi: “Grazie per averci fatto sognare”.
Il regista sorride in modo composto e ringrazia nuovamente. Di certo, ancora una volta, la settima arte, il cinema, ha favorito l’incontro di due culture e la comprensione di realtà storiche e sociali ben precise, che raggiungono una concretezza tramite delle immagini, che, come sempre, valgono più di mille parole.