“Questione di cuore”, questione di luogo

15/04/2009

Il nuovo film di Francesca Archibugi è sulla linea di partenza, pronto a spiccare il volo nelle sale cinematografiche italiane dal 17 aprile. 
Se vedrete uno strano cartellone, con una cinquecento blu, cavalcata da una bizzarra coppia, all’appello Antonio Albanese e Kim Rossi Stuart, incorniciati da uno  stilizzato elettrocardiogramma, siete proprio al cospetto di “Questione di cuore”.
Partita  dal romanzo di Umberto Contarello, l’Archibugi, liberamente, ne ha fatto “il suo brutto film”, come lei stessa ripete.
La storia è semplice: due uomini, Antonio e Angelo, s’incontrano all’ospedale, perché il cuore di entrambi “s’è ingrippato”.
E tra la vita e la morte, nasce un’amicizia profonda e semplice, tra queste due personalità agli antipodi, figli di due culture diverse: l’ex sottoproletario Angelo, ora a capo di una carrozzeria di auto d’epoca, in quel di Pigneto, e l’intellettuale Alberto, sceneggiatore immaturo, che è un bravo demagogo della vita altrui, ma anni luce all’oscuro della propria.
Le scene sono malinconiche, ritratti di brutalità e scherzi amari della vita, ma in superficie, si respira  sempre una ventata d’ossigeno che sdrammatizza il peggio. Si cerca di girare intorno al nocciolo, perché altrimenti, risulterebbe indigesto.
 Davanti all’infarto e all’insicurezza di ciò che potrà seguire poi, la chiamata ai parenti diventa un elemento di presagio: “La chiamata, del genere, addio per sempre o puoi portarmi i calzini?” recita Alberto.
E stavolta è l’intellettuale che ci fa sorridere, mentre,  il carrozziere di borgata  fa riflettere con la famiglia cui deve pensare.
 Mentre le condizioni di Angelo peggiorano, Alberto, ormai solo, abbandonato dalla fidanzata e dall’ispirazione per scrivere, si trasferisce al Pigneto, sotto il tetto dell’amico.
E così, inizia un cammino emotivo dei due protagonisti, che progressivamente, prendono consapevolezza dei loro sentimenti.
Lo sguardo della regista, stavolta, prende in esame il mondo maschile, con una grande sensibilità,  cercando di sfogliarli per comprenderli, non solo nel testo, ma anche nei piè di pagina.
L’essere logorroico di Alberto si oppone agli sguardi pieni di parole di Angelo, e l’intellettuale capirà, alla fine, tra una saldatura e l’altra, alla carrozzeria,  che ci si può far capire anche senza riempire ogni secondo di suoni inutili.
Entrambi gli attori ripetono l’importanza dell’amicizia maschile, soprattutto Rossi Stuart che  vanta tra la sua cerchia di amici, un marmista, un insegnante di karate e alcuni amici di borgata.
E proprio gli stessi attori sono liberi  “nella ferrea gabbia drammaturgica” costruita e debbono essere “illusi di spiccare voli nel cielo di cartone” disegnato per loro.
Francesca Archibugi non scherza, è una “che non molla mai un crostino”, come dice Albanese di lei, “ è sempre sul pezzo”.
Ciò che fa divertire è sentire l’accento de Roma  così enfatizzato da Rossi Stuart opporsi a quello nordico di Albanese, più compito o “nobile”, come preferisce  definirlo  lo stesso.
Abituati a vederlo vestire i panni di caratteristi del sud, questa volta l’attore originario di Lecco, ha voluto cambiare d’abito e optare per una tenuta aristocratica- intellettuale, che non deve, assolutamente, “focalizzarsi su un’unica prospettiva, tipica degli intellettualoidi da quiz televisivi”.
La storia scorre. E lo stesso le immagini, che hanno come contorno,  ambientazioni legate  al cinema neorealista, e forse, da allora, troppo dimenticate.
E quindi, la scelta della regista è stata quella di ritornare sui cimeli storici e rispolverarli; perché tramite i  luoghi, riscopriamo noi stessi.
“Il Quadrato vecchio de Il ferroviere, la borgata Gordiani, dove hanno sparato ad Anna Magnani” sono tutti luoghi che ricompaiono nel film, con lo scopo di celebrare  “una Roma mai più vista al cinema” e di vedere  “com’è diventata”.
E, con lei, noi, “come siamo diventati?”

Roberta Costantini