La Milano perduta di "Io sono l'amore"

20/03/2010


Si respira, fin dalle prime inquadrature, un’atmosfera viscontiana: una famiglia dell’alta borghesia riunita attorno alla tavola per il compleanno del nonno, un passaggio di consegne dell’azienda, la decadenza di un mondo prossimo alla fine e ancorato ai suoi valori in declino, per credere ostinatamente alla sua favola, rinchiuso nella gabbia dorata della sua villa e delle sue regole, una Milano che non è più, bellissima, immacolata, irreale e fiabesca come tutto il resto. E la passione ribelle di una donna che all’improvviso spezza tutto per rincorrere la propria libertà.
“Io sono l’amore”, il film di Luca Guadagnino ha l’impronta originale di chi si distacca dal solito filone di film italiani fatti con lo stampino, reclinati a guardare lo stesso piccolo mondo, e si schiera piuttosto nella grande tradizione del nostro Cinema, con un tocco tutto personale. E il successo internazionale lo premia: da Toronto a Sundance ci rappresenta con dignità e classe, con un cast anch’esso internazionale ed elegante. Da Tilda Swinton, produttrice e interprete, e Marisa Berenson, che recitano in lingua italiana, ad Alba Rohrwacher, Edoardo Gabriellini, Pippo Delbono e Gabriele Ferzetti nel ruolo del vecchio patriarca.
“Quanto ha pensato a Luchino Visconti?”
“Molto. Sono onorato del riferimento e allo stesso tempo consapevole dell’enorme differenza. Ritengo sia un cineasta le cui forme ancora oggi sono spiazzanti, basti pensare all’inizio di “Senso”. Ci piaceva pensare che il nostro film fosse la versione alta società di “Rocco e i suoi fratelli”. Per il compleanno del nonno abbiamo naturalmente pensato ai Buddenbrock, il romanzo che Visconti non riuscì mai a realizzare, ma a cui si ispirò con “La Caduta degli Dei” e anche con “Il Gattopardo”. Oggi i mezzi sono cambiati e non è possibile tornare alla grandezza di quel Cinema, ma sono convinto che si possa ancora cesellare un Cinema meno televisivo, essere più artigiani”.
Guadagnino lo dimostra con la scelta stilistica e del soggetto, un racconto che, come definisce Tilda Swinton, “parla dei pericoli di una vita costruita non seguendo i propri desideri.”  Ha descritto “un universo che soffoca la propria emotività, in cui  l’immagine esteriore e la forma contano di più della naturalezza del proprio sentire, chiuso in una formalità talmente estrema da aver perso la propria anima, ma mancando il nutrimento emotivo la macchina non funziona più.”
Tilda Swinton e Luca Guadagnino lavoravano a questo progetto da sette anni. “Ho conosciuto Luca nel ’93 per un cortometraggio mai realizzato, ma abbiamo scoperto le nostre affinità elettive. So cosa vuol dire lavorare con amici, al Cinema ho lavorato con Derek Jarman per nove anni e il modo di lavorare che ho imparato con lui è un’abitudine che non ha più lasciata. E anche con Luca mi è sempre sembrato di lavorare in famiglia. Parliamo molto da amici che amano il Cinema, dei progetti che vogliamo vedere sugli schermi. Abbiamo molte idee in mente, ispirandoci al Cinema classico di Hitchcock, Antonioni, Visconti....”
Ed è stata la stessa Tlda Swinton a presentare a Guadagnino Marisa Berenson. Che racconta “Interpreto questa signora dell’alta borghesia che ha influenza e forza, ma si sa poco di lei e del suo passato. Sappiamo che non vive nella casa di famiglia, forse perché troppo fredda per lei, o perché vuole una sua libertà, ha un lato di fantasia che ha schiacciato per diventare perfetta, elegante, per cui tutto dev’essere in un certo modo. Poi arriva Tilda che è un’anima libera e che ha sicuramente guardato a lei, sua suocera, per imparare a vivere nella famiglia. Ma è una generazione diversa, per cui i valori non sono più quelli di un tempo, e la decadenza della famiglia sfocia nel dramma. Il personaggio di Tilda e la totale libertà che tiene nascosta fanno crollare tutto”.
“Queste persone dell’alta borghesia devono credere alle favole – prosegue Tilda Swinton – Siamo lontani dall’aristocrazia di Visconti, è una borghesia discreta che ha bisogno di chiudere gli occhi di fronte alla realtà per continuare a vivere nel suo privilegio”.
Irreale come la Milano descritta, ovattata, nascosta dietro i suoi cortili segreti. Dice il regista “E’ vero che questa Milano del film non esiste, ma i tessuti della Milano di oggi sarebbero stati ben poco cinematografici. E Milano è anche la città in cui mi sento di più in una dimensione intima e in cui più amo stare: si nasconde dietro cortili straordinari e ho voluto scoprirne le facciate, la bellezza architettonica, gli scorci di una Milano specifica che apparteneva all’alta borghesia”.  Ancora più bella coperta dalla neve, come nelle inquadrature iniziali che colpiscono subito al cuore. “La scelta di girare con la neve è una di quelle cose spericolate che mettiamo nelle sceneggiature pensandoci in un universo industriale diverso. Quando già pensavamo che fosse impossibile farcela per i nostri mezzi modesti e avevamo spericolatamente deciso di girare con la neve finta, è arrivata la nevicata del 6 gennaio 2009 e ci siamo subito precipitati a girare!”
Ed è giusto che la presentazione del film, per una volta, sia tutta milanese.

Gabriella Aguzzi