
Struggente fino alle lacrime, eppure lieve, l’ultimo lavoro di Pupi Avati, com’è nello stile del regista che di film in film, con sguardo sensibile e tocco gentile rievoca i ricordi amari del passato ritinteggiati dalla nostalgia e si addentra nel mondo fragile dei sentimenti. “Questo film è una poesia e la sua dimensione poetica andava rispettata, lavorando di sottrazione, senza cercare biecamente l’effetto, perché Pupi è un maestro di antiretorica” lo definisce Fabrizio Bentivoglio, che in “Una sconfinata giovinezza” offre una prova semplicemente straordinaria (non dimenticherete facilmente, usciti dalla sala, quel suo mezzo sorriso incerto, di chi si sta smarrendo in un altro mondo). Eppure, sottolinea il regista, non è questo il suo film conclusivo, benché molto intimo e fortemente autobiografico, e si augura di non arrivare mai al film della vita, quello che riassuma in modo completo tutta la sua opera, per continuare a cercare. Ma, al suo quarantaduesimo film, ritiene di aver girato la sua prima storia d’amore.
“Il tema è presente in molti miei film, ma cercavo un pretesto narrativo che giustificasse una storia d’amore, non bastava raccontare un legame tra due persone attraverso 20 anni di matrimonio. E la svolta per raccontare una storia intensa e originale è la patologia che va ad interporsi tra questi due individui, quando un bambino va a sostituirsi alla persona che uno è sempre stato, quando i ruoli cambiano e la moglie diventa quasi una madre, quando la malattia e la sofferenza fanno sì che l’amore si accentui e si enfatizzi. E così ho girato il mio primo film d’amore”.
Era un soggetto delicato e complesso, ma Pupi Avati è entrato in punta di piedi e con commozione partecipe nel mondo di un malato di Alzheimer e di chi gli è vicino, spiandone i mutamenti e il lento perdersi “Lei gli tiene la mano, dalle prime dimenticanze, attraverso il momento in cui lui capisce di non essere di non essere più all’altezza del rapporto con gli altri e si accanisce contro chi gli è più caro, fino a quando lui va a nascondersi nella sua più remota infanzia e si perde in un mondo suo e, a suo modo, è salvo”.
Il passato, quel luogo lontano a cui Lino Settembre lentamente fa ritorno, scandisce, con l’intervallo di brevi flash back, le fasi della sua malattia, suddividendo la storia in capitoli, ma è anche il trait d’union che lega i film di Pupi Avati, un’isola che appare felice solo allo sguardo di chi si è allontanato. Tante volte ci ha cantato il suo affettuoso amarcord, da “Dichiarazioni d’amore” a “Gli amici del bar Margherita”, ma ora più che mai ha regalato ai propri personaggi la forza di ricordi personali e sinceri. “Ho attribuito a Lino Settembre la mia infanzia e sono entrato in una zona intima del mio ricordo. Davvero mia zia cercava un brillante tra i resti di un incidente, davvero mio padre aveva un cane che si chiamava Perché. Faccio film che mi somigliano e nei quali posso riconoscermi.”
Non sarà facile lasciare la sala con gli occhi asciutti e senza un groppo in gola, tanto l’eco di questa “sconfinata giovinezza” arriva dritto al cuore. La cattiveria che cova dietro questo tempo perduto e nel viaggio alla sua ricerca (crudele il personaggio di Gianni Cavina) lascia un’ombra amara. E anche per gli attori, Fabrizio Bentivoglio e Francesca Neri, vi sono stati momenti intensi ed emozionanti. Come tutte le scene girate all’interno della casa, dove i protagonisti portano addosso il peso del loro isolamento, o, racconta Francesca Neri, la scena di violenza “una di quelle che ti porti dentro e di cui non ti liberi facilmente”. Ma il momento più bello, e ricordato con più calore, è la sequenza in cui Lino e Chicca giocano a terra sulla pista dei ciclisti come due bambini. “Li ho lasciati totalmente liberi e Fabrizio ha fatto una radiocronaca ciclistica perfetta. Ho sentito che stavano raccontando la loro storia con quell’affetto, quella tenerezza e quella vicinanza che li rendeva veri”.