Pugni al Cinema

03/03/2011

Tra tutti gli sport rappresentati al cinema, il pugilato è probabilmente quello con maggiore appeal e il più elevato numero di pellicole a lui dedicate. Le ragioni possono essere sia di tipo emotivo (un uomo contro il proprio destino: uno sport di squadra, invece, coinvolge altri tipi di sfide)  sia di tipo strettamente cinematografico: un incontro a due è più facilmente filmabile e, se ricostruisce un evento realmente accaduto, riproducibile.
La boxe, al cinema, è stata vista da diverse angolazioni: film trionfalistici, malinconici, di denuncia. Anche comici.
Allo spettatore non specializzato, se chiedi il titolo di un film sulla boxe, la prima pellicola che viene in mente è senz’altro “Rocky”. Il film del ’76, non infame finché non scende sul ring (e qui invece l’improbabilità regna sovrana, accanto alla retorica più bieca), è stato campione d’incassi e pure, assurdamente, vincitore di Oscar; ma la sua colpa maggiore è stata quella di avviare una sequela di ben 5 seguiti, quattro dei quali (Rocky 2, Rocky 3, Rocky 4 e Rocky Balboa) diretti dal suo stesso interprete, Sylvester Stallone (per il Rocky 5, il meno orrendo, fu richiamato l’autore dell’originale, John J. Alvidsen). Ma il pugilato non è solo trionfo, è anche sudore, ferite, crolli e forse, ma solo forse, alla fine, vittoria e riscatto.

All’inizio, furono Charlie Chaplin (“Charlot pugile”, la memorabile sequenza di “Luci della città”) e Buster Keaton (l’esilarante“Io e la boxe”) a mettere in scena la boxe, facendoci ridere con questi omini che si ritrovavano sul ring contro dei bestioni, ma ai suoi primordi il cinema amò anche le storie umane commoventi: strappalacrime, anche se convincenti, sono “Il campione del ring” di John Ford, con George O’Brien (del ’25: bellissime le sequenze degli incontri) o “Il campione” di King Vidor, con Wallace Beery, del ’31 (nel’79 Zeffirelli ne fece un remake recuperando la sola parte lacrimosa e dimenticando quella efficace). Un genere di film che nel ’78 Stanley Donen parodiò amabilmente in un episodio del film “Il boxeur e la ballerina”.
L’epoca d’oro per il cinema pugilistico furono però gli anni ’50, con una serie di film dal tono fortemente realistico. Ricordiamo “Il grande campione”, del ’49, con Kirk Douglas; il bellissimo “Stasera ho vinto anch’io”, sempre del ’49, diretto da Robert Wise e interpretato dall’ex pugile Robert Ryan, film disilluso e poetico; “Da qui all’eternità”, del ’53, dove la boxe è solo un tema marginale, ma resta impresso perché l’ex campione che si rifiuta di indossare di nuovo i guantoni è interpretato da Montgomery Clift; “Il colosso d’argilla”, del ’56, ultima pellicola di Humphrey Bogart, che denuncia senza peli sulla lingua il giro di scommesse e pressioni che da sempre corrompe il pugilato.

E sempre del ’56 uno dei più celebri bio-pic, “Lassù qualcuno mi ama”, che narra, forse un po’ romanzandole, le gesta di Rocco Barbella, detto Graziano. Buonismo  e sentimentalismo di marca MGM purtroppo non mancano, ma il film va senz’altro apprezzato per la fisicissima interpretazione di Paul Newman in stile actor’s studio, la rappresentazione senza fronzoli di Little Italy, e il tocco di Robert Wise, appassionato di boxe ed ex montatore, nelle riprese degli incontri
Il film biografico più sensazionale, a oggi ancora il miglior film sulla boxe, è però senza dubbio “Toro scatenato”, dedicato a Jake La Motta, il Toro del Bronx. Diretto da Martin Scorsese nell’80, si avvale di un’interpretazione mimetica al limite del virtuosismo da parte di Robert de Niro, di una sceneggiatura impeccabile, di una ricostruzione perfetta, di un afflato epico, sottolineato dall’uso di musiche classiche,   di un montaggio e di una fotografia in bianco e nero magistrali e da un senso di violenza e squallore che trascende il film di genere.
Negli anni a seguire altri hanno osato fare dei film biografici, ma con risultati non paragonabili – e invece, giocoforza, paragonati – al film di Scorsese. Ricordiamo “Hurricane”(Norman Jewison, 1999), che però non è un vero film sulla boxe, poiché di Rubin Carter detto “The Hurricane” non si rievocano le imprese sul ring, ma l’ingiusta accusa di omicidio che gli costò una condanna all’ergastolo (alla fine fu riabilitato e liberato, ma solo 22 anni dopo...): più che altro è un bio-pic semplificato e romanzato e un film di impegno civile; “Alì” (Michael Mann, 2001) declamatorio film, suddiviso in tre capitoli emblematici,  su un decennio nella vita di Cassius Clay alias Muhammad Alì, che ha i suoi punti di forza nella colonna sonora e nell’interpretazione mimetica e doviziosa di Will Smith; e “Cinderella man”, agiografica pellicola sul fenomeno James J. Braddock, Gentleman Jim, campione del mondo improbabile, incarnazione dello spirito americano-roosveltiano: un film convenzionale e vagamente alla Frank Capra, ma coi combattimenti filmati a  dovere e un Russel Crowe straordinario.

Del resto, tra l’80 e oggi, son ben poche le pellicole memorabili, fors’anche perché il pugilato in sé ha perso molto del suo charme popolare. Vale la pena citare “Homeboy”, scritto, prodotto, interpretato e in parte diretto da Mickey Rourke, con un’antiretorica anche se un po’ artefatta storia di perdente che ricorda, con vent’anni d’anticipo, il suo personaggio in “The Wrestler”; il documentario “Quando eravamo re”, sull’incontro del ’74 a Kinshasa tra Clay e Foreman; “The boxer” dell’irlandese Jim Sheridan con un ottimo Daniel Day-Lewis, che però, a parte il titolo e la professione del protagonista, parla ben poco di boxe ed è più che altro una storia d’amore. E poi, nel 2004, è la volta di Clint Eastwood e Hilary Swank nel dolorosissimo “Million dollar baby”, tanto preciso nelle sue marginali storie di ring quanto “altro” rispetto al tema: un film sull’amicizia e la voglia di combattere, sulla speranza e sul momento in cui questa viene a mancare e lascia solo la morte.

E il cinema italiano? Si è occupato ben poco di boxe, forse perché la filosofia del self made man, perfettamente incarnata dal pugile, è lontana da noi. Di incontri ve ne sono tanti, ma sono marginali, o relegati ad episodi (memorabile quello de “I mostri”); oppure la boxe appare indirettamente, attraverso le figure di attori-pugili (come Walter Chiari) o di pugili-attori (Nino Benvenuti, Tiberio Mitri – a proposito, in questi giorni la rai dovrebbe trasmettere una miniserie su di lui...). Il film più importante, e più bello, in cui appare il tema della boxe è “Rocco e i suoi fratelli”, del 60: il film di Luchino Visconti non è un film sul pugilato, ma l’odore delle palestre, il realismo degli ambienti, la precisione di montaggio nei duelli sul ring (con quel “copriti copriti” ripetuto, alternato, durante l’accoltellamento della prostituta) lo rendono ancora l’opera migliore. Non lo è  certamente “Carnera”, goffo e paratelevisivo nonostante un certa cura fotografica. Avrebbe potuto esserlo, se la povertà della produzione non gli avesse tarpato le ali, “La rentrée”, con un sorprendente Francesco Salvi, nella storia della discesa verso la malavita di Mario Gibellini: diseguale, ma da riscoprire.

La Recensione di "The Fighter"

Elena Aguzzi