“Qualcuno mi spiega cosa sta succedendo?” domanda stupito il regista filippino Chris Martinez quando è chiamato sul palco assieme all’attrice Eugene Domingo, accolti da scrosci d’applausi. E quando apprende che il suo film “Here comes the bride” - folle e caotica commedia in cui, a causa di un tamponamento a catena, le anime degli invitati a un matrimonio migrano da un corpo all’altro scatenando un gioco d’equivoci – si è appena aggiudicato il terzo premio al Far East Film, esclama felice “Oh, wow!”
Ma il resto del podio in questa tredicesima edizione del Festival interamente dedicato alla cinematografia dell’Estremo Oriente è tutto cinese: secondo posto per Zhang Yimou con “Under the Hawthorn Tree”, storia d’amore ai tempi della Rivoluzione Culturale Cinese, tra una giovane costretta in un campo di lavoro e un ufficiale dell’esercito, e primo premio a Feng Xiaogang con Aftershock, un melodramma intenso che in sala ha strappato lacrime a più di uno spettatore.
Si conclude così, col riconoscimento a due grandi nomi del Cinema cinese e con una scelta del pubblico (è l’Audience Award il Premio che da sempre viene attribuito al termine del festival udinese, dove sono gli spettatori stessi a formare la giuria) indirizzata nettamente verso il melodramma, un festival ricco come sempre di interessanti scoperte e che, per contrasto, ha dedicato alla risata proprio una delle sue retrospettive. Riportando ovunque simboli di Fortuna, ha segnato il successo anche di questa tredicesima edizione (il 13 è numero fortunato in Oriente), rinnovando l’appuntamento nella simpatica cornice di Udine, tra feste e ottimi vini, tradizionale punto di riferimento e ritrovo per tutti gli appassionati del Cinema Orientale. Non sono dunque mancate le commedie e nella closing night ha brillato, per presenza di star, il remake orientale della commedia americana “What women want”, dove Andy Lau, nel ruolo che fu di Mel Gibson, dà sfoggio anche di talento comico, affiancato da una Gong Lee sempre bellissima. Ma le nostre preferenze vanno ancora una volta verso il thriller, il genere in cui il Cinema Orientale dà la sua espressione migliore e, proprio quando mostra la sua anima più nera, regala le emozioni più autentiche. Non è un caso che i Premi della Critica, tanto il premio Mymovies quanto il Black Dragon, siano andati al giapponese Confessions di Nakashima Tetsuya, dramma nerissimo di vendette tradotte in uno spietato ed algido gioco al massacro psicologico. Ed ancora al tema della vendetta è dedicato lo splendido “Punished” che ha chiuso la tredicesima edizione: nella miglior tradizione hongkonghese il film di Law Wing-cheong racconta in un vortice di flash back come la vendetta di un padre, boss a cui hanno rapito e ucciso la figlia, raggiunga inesorabile i responsabili della sua morte, per punire forse se stesso di un rapporto mancato. Non è un caso che a produrre sia ancora una volta Johnnie To (ricordate “Vendicami”?) e ad interpretarlo è uno dei volti più amati del suo Cinema, un Anthony Wong intenso, commovente e terribile al tempo stesso, semplicemente meraviglioso.
Ancora Hong Kong con Dante Lam e The Stool Pigeon, che coniuga perfettamente il thriller a lampi di puro melodramma. Il thriller hongkonghese, che predilige il tema dell’infiltrato e dei legami gangster/poliziotto diversamente da quello coreano, incentrato sui rapporti all’interno delle gang, si distingue infatti per la carica di romanticismo portata di prepotenza all’interno di tese storie d’azione. Si pensi a tutto il Cinema di John Woo, tradizione che Dante Lam segue fedelmente. Ma coniuga crudezza e mélo anche il coreano “The Man from Nowhere” di Lee Jeong-beom, un “Léon” alla coreana teso plumbeo e adrenalinico su un ex agente dei servizi segreti che si trasforma in un’implacabile macchina da guerra per ritrovare la bambina sua vicina di casa scomparsa. Più cinico lo sguardo di Ryoo Seung-wan in “The Unjust” che in un ritmatissimo ed incalzante thriller privo di eroi mette a confronto due ambiziosi e corrotti rivali che si sfidano senza esclusione di colpi e condanna spietatamente la società coreana sotto il suo mirino. Torniamo a commuoverci con il bellissimo “Villain” (nella foto) di Lee Sang-il, una storia d’amore che unisce due disperate solitudini partendo da un omicidio. Il film giapponese (Lee è coreano, ma cresciuto e formato in Giappone) non è come parrebbe ad un approccio superficiale, la solita storia di amanti in fuga, ma una radiografia realistica seppur venata di doloroso romanticismo sulle conseguenze di un delitto (e si sofferma con eguale delicatezza e misura sulle famiglie di vittime e colpevoli) e sulla doppiezza di un’anima in cui convivono parimente tenerezza e ferocia.