
Nel 1953 George Stevens, regista di media qualità con predilezione per il melodramma, ebbe la folgorazione e diresse uno dei capolavori del cinema western, “Il cavaliere della valle solitaria” (“Shane”).
Fu un prototipo per tutti i film alla Clint Eastwood con l'eroe senza nome che viene, fa giustizia e va. Qui il nome però c'è, ed è per l'appunto Shane. Del suo passato non sappiamo nulla, ma possiamo intuire che è stato un fuorilegge, anche se ha il cuore nobile. Si ferma presso una casa di coloni, si innamora, ricambiato, della donna che la abita e del suo figlioletto, ma non commette nulla di illecito, anzi aiuta il marito a sconfiggere dei banditi che gli fanno prepotenza. Eliminato il più pericoloso, si allontana (mortalmente?) ferito.
Trasportiamo il tutto in un'ambientazione urbana e contemporanea, cambiamo qualche dettaglio (la sorte del marito, la maggior complessità di ruolo dei cattivi) ed è la stessa storia, la stessa atmosfera, lo stesso personaggio e persino lo stesso finale che ritroviamo oggi nell'altrettanto splendido “Drive”.

Ryan Gosling, silenzioso e gentile – quanto spietato- eroe senza nome (è chiamato semplicemente “driver”), è (anche un po' fisicamente, altezza a parte) l'erede perfetto di Alan Ladd/Shane. Qualche cultore del cinema noir potrebbe vederci un po' anche la figura da “samurai” di un Alain Delon o di un Johnny Halliday; senz'altro personaggio, ritmi e violenze ricordano da vicino “The killer” Chow Yun-fat di John Woo, e c'è veramente molto del cinema gangster orientale nell'opera di Nicolas Winding Refn. Ma tra un rimando cinefilo e l'altro, quello con Shane è il più evidente, soprattutto per il rapporto che ha con la famiglia, al punto da esserne quasi un remake. In più c'è il già accennato intreccio personale che lega Driver ai malviventi, e che fa scivolare una storia di giustizia in una di vendetta. Il ragazzo, infatti, ha tre attività parallele: meccanico, stunt man e autista per la mafia, e si troverà quindi non solo a far abbassare la cresta a dei proprietari terrieri dai modi un po' troppo sbrigativi, ma a dover affrontare il capo del capo del suo capo, in una spirale di sangue degna dei noir più cupi e violenti.
Ciliegina sulla torta, le strade di Los Angeles che, come già in “Collateral”, fanno da coprotagonista. Come il titolo fa facilmente supporre, sono tantissime le sequenze al volante, in particolare quelle notturne, ma a differenza di tutti i film precedenti non servono a “fare azione”, ma hanno una funzione narrativa e pure psicologica. “Shane” era un western con pochissimi spazi aperti. Qui le strade sono tante, ma tutte inquadrate dall'alto o dal finestrino di una automobile, sono una ragnatela, quasi una trappola più che una via di scampo; ma sono anche momenti di dolcezza, di solitudine o d'amore, sono un lento fluire sotto le ruote. “Cosa fai?”, gli domanda lei quando lo incontra. “Guido”, è la risposta di lui. Come un cowboy avrebbe risposto “Cavalco”.