Cosa significa la morte di Gigi Proietti per tutti noi

07/11/2020

Raramente i grandi artisti fanno parlare di sé unicamente in relazione al lavoro che fanno. Quelli che riescono a incidere il loro nome nel mondo dello spettacolo sono coloro che amplificano la propria figura, associandola ad un aspetto tout court della società in cui vivono. Allo stesso modo, è come se nel momento della loro morte portassero con loro una parte di quello stesso mondo che hanno aiutato a far avanzare.
Di Luigi Proietti si è parlato molto negli ultimi giorni (e tanto inchiostro ancora verrà versato). Se ne sono ricordate, per l’appunto e per forza, le gesta artistiche che ne hanno caratterizzato la carriera, lasciando un segno evidente nell’intrattenimento italiano contemporaneo (televisione e teatro, in particolare). Tuttavia, non è tutto qui. Del “Mandrake” si è fatto molto cenno all’intensa attività che lo ha visto coinvolto nella promozione della cultura nella Capitale. In un periodo storico dove tutti parlano di cultura senza sapere di cosa stanno discutendo, Gigi Proietti ha agito. Dapprima fondando scuole di recitazione per formare giovani attori, e in seguito fondando teatri. La sua creatura, il Globe Theatre, riproduzione fedele del teatro shakespeariano incastonato nelle meraviglie di Villa Borghese, è nata tra lo scetticismo dei pessimisti e dei benaltristi elitari. Molti schernivano la decisione dell’attore, deridendone l’ingenuità. Ritenevano impossibile far riavvicinare le persone, e soprattutto i giovani, a un mondo come quello del teatro. L’affluenza agli spettacoli ha demolito queste preoccupazioni con i fatti.
In questa vicenda si riassume quello che forse è stato il più grande apporto del Proietti, ovvero decostruire una narrazione aristocratica della cultura. Il suo modo di intendere l’arte e le relazioni con chi la pratica (sempre contornate da una profonda umiltà dell’attore) è sempre entrato fortemente in conflitto con chi usa il sapere come un’arma per sentirsi superiore alla massa. La clownerie proiettiana non si vuole rivolgere solamente a coloro che hanno i mezzi e l’educazione per comprendere le opere più alte e raffinate. Nella sua opera, l’ambiente culturale popolare riottiene il valore che merita. Il dialetto, la barzelletta, la canzone e gli stornelli, la comicità di corpo e le espressioni facciali non devono necessariamente dissonare con Otello. 
Un altro grande intellettuale dei nostri tempi, Umberto Eco, scriveva così su L’Espresso: “Oggi la distinzione dei livelli si è spostata dai loro contenuti o dalla loro forma artistica al modo di fruirli. Voglio dire che la differenza non sta più tra Beethoven e ‘Jingle bells’. Beethoven che diventa suoneria per il telefonino o musica da aeroporto (o da ascensore) viene fruito nella disattenzione, come avrebbe detto Benjamin, e quindi diventa (per chi lo usa così) molto simile a un motivetto pubblicitario. Al contrario un jingle nato per pubblicizzare un detersivo può diventare oggetto di attenzione critica, e di apprezzamento per una sua trovata ritmica, melodica o armonica.” 
La spocchia è da sempre la morte di ogni sincera forma di cultura. Questo perché la cultura, introiettata a dovere, non lascia spazio a classismi di sorta. Altrimenti, diviene solo nozionismo utilitaristico. Capacità di riconoscere i fatti, ma non la bellezza che ne deriva.
Dalle parole di Eco, e dall’operato di Proietti, possiamo desumere un elemento. Ovvero, non importa di cosa si stia parlando, basta che se ne parli con profondità (che non vuol dire pesantezza). All’avviso di chi vi scrive, uno dei più grandi errori della scuola contemporanea è quello di delineare il tempo dei ragazzi in “tempo per divertirsi” e “tempo per cose serie”. In questo modo, si fa passare la letteratura, l’arte, la conoscenza in generale, come qualcosa di importante che va affrontato con austerità. Il tempo del gioco, quello in cui realmente ci si diverte, è un altro. Inevitabilmente i bambini saranno portati a vedere la scuola e il sapere come un’imposizione che, ahinoi, va sorbito in attesa che suoni la campanella e scatti finalmente il “tempo per divertirsi”. Tempo che poi viene riempito molto spesso da quella stessa disattenzione che denunciava Eco.
Sarebbe più giusto invece insegnare ai bambini che il divertimento può essere trovato nella bellezza della conoscenza come gioco, magari implementando quegli elementi di educazione al visivo e al pensiero critico che oggi sono parecchio carenti nella formazione scolastica. Non a caso, nelle scuole, materie come musica e arte vengono percepiti come passatempi riempitivi. Per questo i saltimbanchi e i pagliacci sono così fondamentali.
Alla cultura massificata del contemporaneo, che livella tutto verso la mediocrità mentre si fa fregio di qualche informazione fine a sé stessa (come il fatto che Leopardi fosse nato a Recanati, ricordando il personaggio del liceale Lorenzo, di Corrado Guzzanti), si oppone una cultura più precisa, ma profonda. Più qualità, meno quantità.
Questo sembra precluderci la strada alla multidisciplinarietà. Come si può evitare la superficialità, pur abbracciando tutti gli immensi campi del sapere? Non si può, se si vuole essere “utili”, “pragmatici”. Specializzarsi in un solo ambito è nettamente più conveniente per la nostra vita. Dall’altra parte però c’è l’innato bisogno dell’essere umano di essere partecipe della vita dei propri simili e di ciò che viene prodotto come testimonianza del nostro passaggio sulla Terra. 
In questo binomio si inseriscono figure come quella di Gigi Proietti (e anche di Umberto Eco), apparentemente capaci di fare qualsiasi cosa, conoscitori di una mole spropositata di campi del sapere, abilissimi nel comunicarli ed emozionare. Cosa comporta, quindi, la scomparsa di questi personaggi?

Chi erano Gigi Proietti, Umberto Eco, ma anche Kobe Bryant e Albert Uderzo (fra i tanti)?
Erano il “De Brevitate Vitae” di Seneca. Cultori della vita che ci ricordavano sempre qualcosa di cruciale: non è vero che la vita è troppo corta. Ci è stato dato lo stesso tempo che è stato fornito a Leonardo Da Vinci. Sta a noi usarlo come meglio crediamo. C’è chi sceglie di riempirsi di bellezza. Alcuni arrivano ad esserne così pieni da straripare, e volerla offrire anche agli altri.
Sta lentamente scomparendo una generazione che ha fatto della genuinità e dell’autenticità il proprio cavallo di battaglia. Molti di loro sono divenuti simboli di rappresentazione. Chi vi scrive è nato e vissuto a Roma, quindi potete ben immaginare quanto abbia impattato la morte di Proietti per quelli come me. 
Ad oggi, gli artisti si limitano molto spesso a riprodurre le grandezze già sedimentate, non riuscendo ad uscire dalla dimensione del loro ruolo nella società, visto come un semplice “mestiere”. Probabilmente, questo è frutto di un contesto sociale diverso, che negli anni ha sacrificato la genuinità di una cultura povera la quale, non scevra da aspetti negativi, non ha più i mezzi per farsi sentire. 
I social e l’accesso illimitato all’informazione portano con loro un inevitabile contrattempo: essere costantemente bombardati da stimoli, difficilmente riconoscibili e malamente assorbiti. In questa gargantuesca produzione di contenuti e informazione, ben poco rimane. Di fatti, nel 2020, siamo ancora qui a campare di rendita sull’immaginario culturale del novecento.
Questo, inevitabilmente, si riflette nel mondo degli intellettuali. Questa battaglia tra specializzazione e argomenti centellinati ha coinvolto anche loro. Per di più, gli intellettuali non sono più degli artigiani. Pochi sono ancora in mezzo alla comunità, pochi fondano teatri per i giovani, pochi sanno comunicare l’amore per una poesia di Trilussa. Non a caso la massa non ha più simpatia per questo mondo, ritenuto complice del potere o, nella migliore delle ipotesi, un coacervo di privilegiati che giocano a fare i rivoluzionari senza conoscere il mondo vero.
Con Gigi Proietti scompare parte di un mondo di poesia. Un mondo che favoriva l’emersione di una cultura popolare autentica, perché popolari (e non populisti) erano coloro che la creavano e i contatti che stabilivano. Chi la riprenderà in mano?

Edoardo Cappelli