Warriors of Love

31/08/2009

È stato un autentico colpo di fulmine e una delle opere più interessanti ed innovative della 65° edizione del Festival del film di Locarno questo piccolo capolavoro del visionario regista danese Simon Staho che ci immerge in un’atmosfera plumbea e funerea, ma al contempo potente e secca come un pugno dritto allo stomaco…
Mi ha fatto venire in mente l’ Amleto di William Shakespeare ‘’vi è del marcio nel regno di Danimarca…’’ e credo che calzi a pennello con lo spirito dell’opera e fa ben sperare per il futuro della cinematografia danese se ci sono opere così incisive, coraggiose, che riescono a colpire profondamente tanto la psiche quanto il cuore dello spettatore come, appunto, è riuscito a fare Simon Staho.
Il riferimento all’Amleto credo calzi a pennello con quest’opera poiché narra di un dramma famigliare e di antichi rancori mal sopiti che riemergono come fantasmi della mente, proprio come nella tragedia shakespeariana.
Simon Staho mette in scena la vicenda in un bianco e nero dai tratti un po’ lucenti e al contempo graffianti come nei primi capolavori di Ingmar Bergman; una disperata e sofferente love story saffica di due ventenni che escogitano l’omicidio del padre di una delle due, che in passato ha abusato della figlioletta.
Assolutamente indimenticabile e straziante la sequenza nella quale la ragazza racconta all’amante di quando è stata abusata per la prima volta dal padre; sgomenta la freddezza e la naturalezza con la quale racconta…Da far accapponare la pelle la metafora del nano, organo genitale maschile.
Le due ragazze compiono il parricidio tutto fuori scena e, probabilmente, il non mostrare l’orrore dell’atto criminoso lo rende più incisivo e perturbante per la fantasia dello spettatore. Per il rimorso e per la paura d’essere arrestate e quindi separate per sempre, le due ragazze decidono di suicidarsi…Mi son permesso di raccontare la fine non per rovinarne la visione e togliere il pathos, ma perchè non si tratta di un thriller,  bensì di un melò struggente di fortissimo impatto bergmaniano.
Il regista non concede nessun elemento spettacolare, l’opera è avvolta da un bianco e nero opprimente, pieno d’ombre come nei film horror dell’anima di Jacques Tourneur e, certamente, non è un caso o una fantasia di cinefilo l’assenza del supporto della musica e la presenza in scena delle sole due protagoniste, le toccanti e convincenti Josefin Ljungman e Shiva Niavarani.
Per concludere si tratta di un’opera estremamente interessante e son pronto a scommettere che sentiremo ancora parlare di Simon Staho. Glacialmente bello.

Ettore Calvello