I due più grandi film di quest'anno appena trascorso, altrimenti piuttosto scarso in qualità, condividono una caratteristica assai peculiare: i loro titoli "No country for old men e There will be blood (necessario, assolutamente, dimenticare lo sciocco titolo italiano attribuito al capolavoro di Paul Thomas Anderson)" sono del tutto intercambiabili.
Partiamo dall'osannata, e pluripremiata, pellicola dei Coen: la cifra stilistica del film, che sia scarlatto sulla sabbia grigia, magenta sui pavimenti sporchi di una stazione di polizia, nero sui corpi ormai freddi dei morti, è il sangue è un sangue denso e vendicativo, lucido senza diventare cartoonesco come nello Sweeney Todd burtoniano, eppure brillante come quello, sulla neve, di Fargo. La storia, sapientemente non chiarita da una sceneggiatura serrata e perfetta, tratta da un romanzo del recente premio Pulitzer, Cormac McCarthy, ruota, con la precisione di un meccanismo ad orologeria, intorno ad una partita di droga e a due milioni di dollari: soldi sporchi, insanguinati, che finiscono per caso nelle mani di un saldatore con velleità, quasi d'obbligo nel Texas polveroso, da cacciatore. Non fosse che, Llewellyn Moss diventa subito preda d'una fiera assai più pericolosa: un killer psicopatico che ha le fattezze di uno Javier Bardem in stato di grazia, inseguito a sua volta da un risolutore patinato, il sempre bravo Woody Harrelson, e da uno sceriffo, Tommy Lee Jones, il cui viso piagato e la cui voce è obbligatoria la visione in originale è sabbiosa sono i veri correlativi oggettivi di un paese che, per citare Lynch, ha «un cuore selvaggio e una mente impazzita». Il senso del titolo, No country for old men, è chiaro nel monologo iniziale e in quello finale: quest'America, maledetta dai soldi e dal potere che solo i soldi conferiscono, non s'addice più ai vecchi - «Se dieci anni fa m'avessero detto» chiosa un vecchio collega di Tommy Lee Jones «che oggi in Texas avrei visto adolescenti con i capelli verdi e ossa al naso, non ci avrei creduto». È lo sguardo dello sceriffo, che, alla fine, si ritira in pensione, che uniforma la visione magmatica dei Coen: lo sguardo di chi non riconosce più il proprio essere nel mondo. There will be blood, benché non renda forse giustizia al messaggio malinconico e seppiato del film, avrebbe tuttavia reso giustizia alla decostruzione/ricostruzione del noir, meccanismo che ormai i Coen, benché con alterne fortune, padroneggiano da anni: non si contano le sparatorie, gli inseguimenti, i gatti che tendono trappole ai topi è ed ogni sequenza è coronata dal sangue, che sprizza, erutta, sommerge, inonda, tanto da far dimenticare che i toni prevalenti della pellicola, fotografata da Roger Deakins, siano l'azzurro del cielo e l'ocra della sabbia.
Al contrario, il sangue di There will be blood, è tutto figurato, è quello nero della terra, del mondo offeso; quello metaforico dei sermoni di Eli Sunday, apocalittico profeta della Chiesa della Terza Rivelazione; solo in ultima istanza, quando ormai la spirale tragica del film è avviata verso la gargantuesca conclusione, il sangue è quello vero dell'omicidio, consumato con brutalità e urgenza, simbolo e suggello di un dittatore totalitario che, per prosperare, novello Crono, è costretto a divorare i propri stessi figli. Giova chiarirlo subito: la parabola di Daniel Plainview, passata dal barbarismo alla decadenza senza civilizzazione nel mezzo, come disse Georges Clemenceau dell'America, dimostra chiaramente che neanche la California del petrolio è un paese per vecchi. Cercatore d'argento alla fine dell'Ottocento, Plainview è un Daniel Day Lewis per il quale qualsiasi aggettivo rischia d'esser riduttivo e perfeziona da sé, come ogni buon self-made man dovrebbe fare, la tecnica diestrazione del petrolio, e sogna d'arricchirsi così tanto da potersi ritirare in solitudine, odiando tutti gli altri uomini che non ne condividono la grandezza: tiranno e mostro, alla fine si riduce vecchio e solo, nell'esilio cupo d'una Xanadu illuminata da lampade rosse, e annuncia, perforando la quarta parete, di essere finito. Nel mezzo, fra lo sconfinato nulla di praterie brulle e notti illuminate da incendi, un figlio che gli si rivolta contro e un giovane parroco, un Paul Dano di cui stupisce la bravura, in grado di rivaleggiare con il mostro sacro Lewis, infervorato ma menzognero, tiranno a sua volta del gregge che vorrebbe condurre nella grazia di Dio, e distrutto anch'egli dal colore dei soldi. Due totalitarismi a confronto, entrambi sconfitti, e soprattutto due figure, umane troppo umane, abbandonate infine dalla fiumana del progresso, relitti storici alla deriva che concludono la loro parabola decadente su una pista da bowling: così semplice, così banale. Così gigantesca.
I due film, cui è giunto il momento di restituire i titoli originali, hanno molto altro in comune, in particolar modo il finale, anticlimatico in entrambi i casi: scelta obbligata sia per i Coen sia per Paul Thomas Anderson, decisi a raccontare due viali del tramonto, diversi eppure consonanti. È successo spesso, nella storia del cinema, che due pellicole "così estranee nella realizzazione, gorgogliante quella dei Coen quanto è lucida ed epica quella di Anderson, ma così affini nell'anima" si dividessero equamente i consensi e, non da ultimo, gli Academy Awards: confrontare i due film, a questo punto, è solo un gioco cinefilo, giacché va riconosciuta ad ambo la propria grandezza, ma un gioco che può comunque suscitare un dibattito fecondo su due idee di cinema, americana/ antiamericana quella dei Coen, americana/ europea quella di Anderson, che continuano a dimostrarsi, per quanto questo possa apparire contraddittorio, la vera anima del cinema americano che, mai come negli ultimi anni, quando è solo hollywoodiano produce stelle comete effimere, destinate a durare il tempo d'un buio in sala, senza la grandezza necessaria a fare storia.
No Country for old men: voto 8
There will be blood: voto 9
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